Nella «Guantanamo libica»: Abu Salim

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TRIPOLI. Fozy Ghait racconta con foga il giorno di una settimana fa quando è entrato nel carcere di Abu Salim e, insieme ai ribelli, ha liberato centinaia di reclusi. «Le guardie carcerarie erano fuggite. La prigione era rimasta abbandonata. Con altri abitanti del quartiere, ci siamo uniti ai combattenti. Abbiamo spaccato i lucchetti, aperto le porte. Sono usciti tutti, come un fiume in piena», racconta questo 50enne abitante del quartiere nel cortile del famigerato carcere di Tripoli, uno dei luoghi simbolo della repressione messa in atto dal regime di Muammar Gheddafi durante il suo regno più che quarantennale.
E’ in questo penitenziario che, il 30 giugno del 1996, sono stati uccisi nel corso di un solo giorno circa 1.200 prigionieri, colpevoli di aver chiesto migliori condizioni di reclusione. Li hanno riuniti nel cortile e falcidiati sparando con le mitragliatrici appostate dal tetto. Il massacro è passato sotto silenzio per più di otto anni ed è stato ammesso solo nel 2004 da Seif al Islam Gheddafi, il figlio secondogenito del colonnello, dopo le ripetute richieste delle famiglie delle vittime.
Oggi il carcere è oggetto di una processione di ribelli, ex reclusi o semplici curiosi, che si avventurano all’interno dei corridoi, esplorano le celle, scandagliano i sotterranei. Guardano le schede dei detenuti sparse per terra, fanno fotografie dei muri e dei cancelli. Il sentimento generale è un miscuglio di rabbia e soddisfazione: la rabbia per quello che è successo qui, la soddisfazione nel vedere questo simbolo ridotto a una spoglia del regime caduto. «Questa era la Guntanamo libica», esclama Omar Aita, un bancario di 53 anni che è venuto qui oggi per la prima volta. «Abito a poca distanza. Ho sempre considerato il carcere come una specie di fortezza inespugnabile, un luogo maledetto, soprattutto dopo quello che è accaduto nel 1996».
Jumaa Abuhamuda ricorda bene quel giorno di quindici anni fa. Lui era all’interno del carcere, arrestato un anno prima con un’accusa che non gli sarebbe mai stata notificata. «C’erano due sezioni nella prigione. A un certo punto, dall’altra sezione abbiamo sentito colpi di arma da fuoco fortissimi, artiglieria pesante. Abbiamo pensato che qualcuno stava cercando di entrare da fuori. Invece si stava compiendo il massacro». Abuhamuda è tornato qui oggi per la prima volta dal giorno della sua liberazione, avvenuta nel 1999 dopo quattro anni di reclusione senza giudizio. Si guarda intorno. Riconosce le celle anche se – aggiunge – «il carcere è molto migliore di quando ci stavamo noi. All’epoca il pavimento era una colata di cemento. Nelle celle non c’era acqua. Stavamo accalcati uno sull’altro senza poter far nulla».
Jumaa, che oggi ha 45 anni e vive in un bell’appartamento a poca distanza dal penitenziario, ricorda distintamente il giorno dell’eccidio. «Non sapevamo che cosa stava accadendo. Eravamo chiusi dentro le nostre celle e udivamo gli spari. Eravamo terrorizzati, incapaci di parlare. Poi due-tre giorni dopo, la voce si è cominciata a spargere». Chiuso per quattro anni in una cella insieme a 15-17 altri detenuti, l’uomo si considera un miracolato. Accanto a lui, il figlio di quindici anni ascolta con attenzione il racconto. Il piccolo Hamuda è nato pochi giorni dopo la strage. In un certo senso, è figlio di quell’evento: quando la madre stava partorendo, nello stesso ospedale di Abu Salim sono arrivati decine di feriti dal carcere. «Erano i sopravvissuti del massacro, di cui non si è saputo più nulla. Immaginate come possa essersi sentita mia moglie in quel momento», aggiunge Jumaa, che ha conosciuto suo figlio solo all’uscita di prigione, quando il piccolo aveva già  tre anni e mezzo.
Il carcere di Abu Salim era infatti una zona off limits a chiunque: familiari, amici, visitatori non erano ammessi. I detenuti all’interno, per lo più oppositori veri o presunti del regime, erano tagliati fuori dal mondo. L’unica concessione che veniva fatta alle famiglie era la possibilità  di portare, ogni lunedì, cibo e vestiti ai parenti reclusi. «Ma poi comunque non ce li davano», afferma Jumaa, che sottolinea come i pasti che venivano loro somministrati consistevano in mezzo panino la mattina e un pugno di riso o di pasta la sera.
Queste condizioni proibitive sono peggiorate, se possibile, dopo il massacro del 1996. Una coltre di silenzio è calata sull’episodio. «Era impossibile anche parlarne», racconta Jumaa, che confessa di averne discusso fino a una settimana fa solo con gli amici più cari. Gli stessi parenti dei detenuti che si presentavano al cancello della prigione per avere notizie, venivano rimandati indietro. Molti hanno continuato a portare cibo e vestiti a familiari che erano già  morti da anni. Solo a partire dal 2004 il regime ha cominciato a notificare ai parenti delle vittime la morte dei loro parenti.
Oggi il cerchio si chiude. La strage del carcere è stata in qualche modo il lungo incubatore della rivolta di Bengasi. Gran parte delle persone morte nell’eccidio provenivano dalla capitale della Cirenaica. Nella piazza del Tribunale si sono riuniti per anni ogni sabato i familiari delle vittime. E’ in quella piazza che, dopo lo scoppio della rivolta il 15 febbraio, sono state appese a futura memoria le foto dei martiri del 1996. E’ in quella piazza che, insieme alla presa di Tripoli, si è festeggiata in modo particolare la caduta di Abu Salim, una delle pagine più buie del regime di Gheddafi.


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