Nel cuore nero dell’Ungheria

by Sergio Segio | 17 Agosto 2011 6:33

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Budapest. I giornalisti della radio pubblica l’hanno appreso come in un campo di concentramento: improvviso appello del mattino per tutti nel grande cortile della sede centrale, poi l’ordine di dividersi in scaglioni di 50 e presentarsi un gruppo dopo l’altro a commissioni speciali: quelle hanno detto loro chi restava e chi veniva licenziato. Gli epurati, in radio e tv di Stato, sono stati finora 525, molti tra i migliori, fior di giornalisti, premi Pulitzer. Altri 450 licenziamenti arriveranno prima di fine anno: la grande purga eliminerà  così mille su tremila persone, un terzo del totale. Una sola newsroom centrale, in mano alle penne della destra, distribuisce notizie ai media pubblici. Nella pubblica amministrazione, è ancora peggio, e il governo ha facile gioco a difendersi: niente statistiche pubbliche sul totale dei posti soppressi e delle persone sostituite. Nei teatri e nelle Università , nella magistratura e alla Corte dei Conti, ai posti di comando sono solo uomini fedeli alla Fidesz del premier Viktor Orban, il partito al potere. In provincia, si comincia con metodi di segno ancor più chiaro. Come a Gyoengyoespata, governata dai neonazisti di Jobbik: ogni mattino alle sette i disoccupati, tutti Rom, devono presentarsi con una maglietta arancione che ricorda le uniformi dei detenuti di Guantanamo: chilometri a piedi sotto il sole, con zappe, rastrelli e pesanti secchi d’acqua per dissetarsi, e poi ore di duro lavoro manuale.
“Koezmunka”, lavoro socialmente utile, si chiama la misura che evoca un po’ lo Arbeitsfront nazista e altre misure del Terzo Reich, e presto potrebbe coinvolgere fino a 300mila persone. Ungheria, estate 2011: ecco quasi una cronaca dal fascismo in diretta, ecco il resoconto del nuovo autoritarismo liberamente eletto che cresce, emargina, censura indisturbato in un paese membro dell’Unione europea.
«È troppo facile, e sbagliato, paragonare Orban a Berlusconi, in confronto al premier ungherese Berlusconi è un democratico», mi dice Karoly Voeroes, ex direttore del quotidiano Népszabadsà g, uno dei più autorevoli giornalisti magiari, protagonista della protesta contro la legge-bavaglio. Aggiunge: «La situazione è peggiorata. Mesi fa ritenevamo impossibili nuove strette, e invece eccole. Governano usando l’odio, l’invidia, la paura». Non sono bastati i limiti draconiani alla libertà  mediatica, né l’istituzione della Nmhh, l’autorità -Grande fratello fedelissima al potere, che veglia su ogni testata e punisce con multe che portano sul lastrico. Adesso i media pubblici hanno un’unica newsroom, «è la fine del giornalismo come ricerca critica», nota Voeroes.
«La nazione ora è unita», gridano in strada manifesti governativi esaltando la maggioranza più che assoluta, oltre due terzi dei legislatori. Foto: una bionda famiglia sorridente. Il capo esecutivo della newsroom unica è Daniel Papp, 32 anni, cofondatore di Jobbik, il partito della Guardia magiara che sfila con le uniformi nere degli alleati di Hitler e correi dell’Olocausto. Ha fatto carriera manipolando un’intervista a Daniel Cohn-Bendit: in onda la domanda sulle vecchie, assurde accuse di passata pedofilia al leader dei verdi europei, ma non la risposta di smentita. Capo supremo della newsroom è Csaba Belenyesi, promosso nell’agenzia di stampa nazionale per volere della Fidesz. Con un gioco di parole amaro, il settimanale tedesco Der Spiegel parla di “Arcipelago Gulash”: dal tollerante, morbido “socialismo del gulash” della guerra fredda la cara, bella, vivace Ungheria diventa un paese che, da destra, evoca l’Arcipelago Gulag narrato da Solgenitsyn.
L’epurazione continua, e fa paura a tutti, giornalisti, dipendenti pubblici e semplici cittadini. Non risparmia nemmeno i più illustri. L’Arcipelago Gulash ha licenziato premi Pulitzer, da Laszlo Benda all’intera redazione del programma giornalistico critico La sera, con cui Antonia Mészaros e il suo team facevano reportage d’alto livello. È finita per la trasmissione culturale di Sandor Szenési, troppo critica e aperta al mondo. Parlava anche delle infami indagini contro Agnes Heller, Mihaly Vajda, Sandor Radnoti e gli altri grandi filosofi della Scuola di Budapest, quegli epigoni di Gyorgy Lukacs accusati di “malversazione di pubblico denaro” per spese documentate di ricerca scientifica e letteraria. La newsroom unica funziona a meraviglia: in radio e tv, notano diplomatici europei, Orban ha 35 volte più spazio rispetto all’opposizione. Si tace persino delle critiche ordinate da Hillary Clinton alla scelta di cambiare nome alla centralissima Piazza Roosevelt, dedicata dal dopoguerra al presidente americano che sconfisse l’Asse. Il cinema ungherese, che fu tra i più illustri dell’Impero comunista, ora è in mano a un magnate di Hollywood amico di Orban, Andy Vajna: vuole telenovelas da cassetta, addio alla qualità  di Miklos Jancsò e degli altri grandi di ieri.
Appena celata dalla gentilezza d’animo e dalla vivacità  di questo adorabile popolo nel cuore dell’Europa, la paura di perdere il lavoro perché sospetti di idee critiche la cogli in ogni ambiente, la leggi su tanti volti, e per chi visita spesso l’Ungheria fin dai Settanta è uno shock triste. Il ricordo del misto allegro e cinico di umor nero, ironia e disprezzo con cui i magiari vivevano nella “migliore baracca dell’Impero del Male” si allontana. Diffamano anche Pal Lendvai, principe dell’emigrazione anticomunista e grande firma del Financial Times: lo accusano contro ogni prova di spionaggio per la vecchia dittatura. Liberal, cosmopolita, amico degli stranieri ostili alla patria, amico del grande capitale internazionale – ricalcano i sinonimi con cui Goebbels parlava degli ebrei – qui sono termini entrati nel nuovo salotto buono della newsroom unica. La paura blocca i Rom, le prime vittime del lavoro utile obbligatorio: se rifiutano la vita da forzati, addio ai miseri sussidi-povertà . Nuove proposte di legge prospettano “campi d’ospitalità ” per disoccupati non collocabili o “elementi asociali”. In altri ghetti, squallidi prefabbricati come quelli dei terremotati italiani, sono finiti, come nella cittadina di Ocsa, gli ungheresi impoveriti dalla crisi, che hanno perso la casa comprata con mutui (oltre trecentomila, tanti in un paese di 10 milioni scarsi di abitanti) ormai troppo cari in franchi svizzeri.
«Non è finita, aspettiamo i prossimi passi, la fascistizzazione strisciante verrà », dicono i colleghi del Népszabadsà g: il governo prepara leggi che vorrebbero autorizzare il licenziamento immediato anche di malati o donne incinte, imporre ai lavoratori di andare in ferie soprattutto quando lo dice il padrone, esautorare i sindacati. Nell’Arcipelago Gulash, mi dicono amici preferendo l’anonimato, incontri professori che hanno paura di chiedere all’antennista di sintonizzare la tv su canali critici. O vedi un razzismo da banalità  del male. Come l’altro giorno in un paesino, a una festa per i bambini. Il clown scritturato dal sindaco a un certo punto ha teso la mano ai bimbi per avviare un girotondo. A tutti, fuorché a due piccoli visibilmente Rom di cinque e tre anni, rimasti là  soli senza che nessuno volesse giocare con loro. Nemmeno sembravano sorpresi: emarginazione naturale fin da piccoli, evoca quel sentimento dei bambini ebrei in guerra che Gyorgy Konrad descrisse: «A cinque anni sapevamo che prima o poi Hitler ci avrebbe uccisi». L’Arcipelago Gulash è così, l’Unione europea tace e stronca le speranze. Il dolore per l’Ungheria te lo allevia l’Airbus della Lufthansa quando, ai comandi d’una giovane pilota, stacca le ruote rombando dalla pista di Budapest e punta verso la Germania: a bordo vien quasi voglia di applaudire, come usava sotto Breznev decollando da Mosca.

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