Nei villaggi devastati dalla furia di Irene “Il nostro inferno alle porte di New York”
rifton (New York) – Nel paradiso dei newyorchesi l’uragano che fa sbuffare Manhattan è un incubo che fa disperare. A Rifton non c’era il signor Mike Bloomberg che dava gli ordini di evacuazione da poter comodamente ignorare. Così quando la furia ha cominciato a sfogarsi fin quassù, Claudia e Alan Small hanno capito che non sarebbe per niente stato un giorno come gli altri: ed era ancora notte. Sapete come funziona quando vivi tra ottocento anime. Si fa come si può. Claudia e Alan sono vigili del fuoco del paesino: i custodi del villaggio. «Alle due di notte di sabato è cominciato a venir giù l’inferno: e non ha più smesso per un giorno intero» racconta Claudia guardando disperata quel che resta della sua strada numero 32: un lago che te la scordi la sagra dall’8 al 10 settembre promossa dal ristorante lì dopo il ponte, ora condannato a chiudere a vita. «Ci vorranno un paio di anni almeno per rimettere le cose apposto. E questa è la strada che ci connette con il resto del mondo». Che poi sarebbe già a 4 miglia da qui quel villaggio di New Paltz (all’ingresso i cartelloni invitano orgogliosi a visitare “il centro storico ugonotto”) pullulante di villeggianti che si trascinano al solito Starbucks non degnando di uno sguardo il Ricci’s barber shop.
A Riston non è venuto giù il mondo come a Windham dove i newyorkesi vanno, sì, ma a sciare. Non si è compiuta l’apocalisse che si stava inghiottendo Margaritasville. E certamente questo borgo è staccato di varie lunghezze nella classifica del dolore che lo separa dai centri bombardati dall’acqua del Vermont («Una catastrofe!» continua a piangere in tv il governatore Peter Shumlin) che fino a ieri risultavano irraggiungibili. Però basta fare come sempre due conti: 800 anime, 80 chiamate ai due pompieri disperati. Uno su dieci. Quanti ne avete salvati davvero? «Una dozzina» dice Amam. «Anzi potremo dire quasi 13: una donna era incinta».
A questi piccoli eroi di provincia adesso non resta che fare la guardia alla strada che non porta più a nessuna parte e poco altro da fare: «Ci hanno già detto che la luce non tornerà per parecchi giorni». Internet? Ma va. E poteva andare, come sempre, molto peggio, molto molto peggio: se per esempio anche la diga Dashville avesse tradito la fiducia di questa brava gente. Ecco che cosa voleva dire il governatore Mario Cuomo quando sosteneva che l’emergenza per New York non era finita. Parlava di qui: Stato di New York. Mica del salotto di Manhattan che i disagi più gravi li vive perché il blocco della metropolitana di un giorno e mezzo (e ieri la presenza necessariamente a scarto ritardato) l’ha privato dei servitori che non possono permettersi gli affitti da paura e vengono tutti da fuori.
C’è un’altra New York che ha messo a nudo Irene: questa. Tutta la zona di quel paradiso naturale che è l’Hudson Valley Park, ieri tagliata fuori dalla civiltà con il collasso dell’I-87: l’autostrada che attraversa mezzo Stato. La New York dei Catskills, le montagne dove i signori cittadini svernano che adesso sono un unico grande lago senza luce elettrica e senza acqua potabile. Lisa Harris usa il suo Watershed Post, il giornale locale, per mettere in mostra online l’emergenza della sua gente. La chiamano da New York quelli di Wnyc, la radio pubblica locale, e lei bacchetta i cugini di città : non dimenticatevi di noi proprio adesso e proprio voi che qui venite a sciare e bevete la nostra acqua. Già , ancora l’acqua: quella dell’acquedotto di Catskills, quelle riserve dell’Hudson che da cent’anni riforniscono Manhattan fino ad allora costretta ad abbeverarsi al reservoir di Central Park: che sarà bellissimo come laghetto ma come riserva è poco più di una pozzanghera.
Sempre Cuomo, il governatore, che i voti non li prende soltanto giù in città , ha messo sul suo sito le immagini della Main Street di Margaritasville che non c’è più. Ma quella sciagura di Irene ha portato la devastazione in tutta la provincia dell’America più ricca: l’East Coast dei coloni e della tradizione. Tutti aspettavano l’Armageddon della metropoli: New York sommersa come succede soltanto nei film. E invece l’uragano più bastardo che la meteorologia abbia mai concepito (era più di un secolo che non se ne vedeva uno di questa intensità avvitarsi fin qua su) ha finito per devastare non la costa ma l’interno. Altro che furia dei mari: uragano di montagna. Quella che doveva essere l’emergenza tornado è diventata l’emergenza alluvione. E adesso Barack Obama affonda nel suo Polesine.
Per questo il presidente evita toni trionfalisti da tragedia scampata e continua a dire che c’è ancora tanto da fare e la ricostruzione sarà lunga. I danni che l’altro ieri ammontavano a 7 miliardi sono già saliti a 12: per ora. I morti più di 27. Ma anche qui sulle Catskills si sussurra che non tutti i residenti hanno ancora risposto al contrappello. Il Vermont sembra davvero una zona di guerra. «Fattorie distrutte. Campi scomparsi. Industrie sott’acqua. Case erose o spazzate via. Devastazioni ovunque». Lo sconforto biblico del governatore rilanciato dal New York Times è la fotografia di questa tragedia certo meno spettacolare del film dell’orrore che in tanti avevamo immaginato: ma non per questo meno orribile. Un milione, quasi, nello Stato di New York: 800mila. Seicentomila nel Connecticut. Settecentomila nel New Jersey. In tutto sono due milioni e centomila americani ancora senza luce. Da tre giorni: e vi sembra l’America?
Il governatore del New Jersey Charlie Christie giura che l’emergenza durerà almeno altri cinque giorni. Però, certo, a Broadway ieri sono ripresi gli show e lo spettacolo del tennis di Flushing Meadows per fortuna andrà avanti. L’uragano metastatizzato in alluvione fa contare danni e vittime nella provincia dell’impero. Posti che si chiamano Wilmington, Marlboro, Brattleboro nel Vermont della canzone di Glenn Miller (ho il chiar di luna, “Moon light in Vermont”). Il Times Herald Record titola un po’ scocciato: «New York si risparmia la furia di Irene». Ovviamente a pagina 11. Le prime dieci sono dedicate alla devastazione da Goshen a Wawayanda. Nomi quasi impossibili. Che il resto del mondo vorrebbe già dimenticare. Come quel piccolo tesoro di Phenicia, sempre qui sulle Catskills che fino a ieri era letteralmente tagliato fuori dal mondo, sottolinea Lisa Harris. E sì, a volte basta che caschi un ponte. Ma a chi importa se non è quello di Brooklyn?
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