Nei bunker sotterranei inseguendo Gheddafi
TRIPOLI — È caccia aperta a Gheddafi e ai suoi figli. «Non sarà finita sino a quando il dittatore non sarà nelle nostre mani», dichiarano all’unisono i ribelli, da Bengasi alla capitale. Ieri, a metà giornata, si era diffusa la voce che il Colonnello, alcuni dei suoi fedelissimi, forse lo stesso figlio più «politico», Saif al Islam, fossero nascosti in una sorta di piccolo bunker ben camuffato nella zona di Abu Salim. Il quartiere, uno degli ultimi dove le sacche di resistenza degli irriducibili della dittatura sono più organizzate, è stato al cuore di un’intensa battaglia, ieri, per tutto il pomeriggio. Solo verso le 7 di sera i ribelli sembra siano riusciti ad annientare anche gli ultimi covi di cecchini. Per un attimo è sembrato che il Colonnello potesse essere stato catturato.
Invece, nulla. Ancora una volta i desiderata della Rivoluzione si sono trasformati in verità scivolose della propaganda. Salvo poi venire, ovviamente, smentite alla prova dei fatti.
E tuttavia la caccia continua. Alcuni media britannici riportano di un attivo coinvolgimento della Nato sul terreno nella gigantesca operazione di setaccio del Paese per individuare e intrappolare il dittatore. Si sta diffondendo la convinzione che sia già fuggito verso Sirte, o addirittura abbia messo in pratica un suo vecchio piano di evacuazione segreta che era stato concepito al tempo del braccio di ferro con gli Stati Uniti a metà degli anni Ottanta. Sembra che le Sas, le forze speciali britanniche, abbiano mandato il meglio dei loro corpi scelti per aiutare operativamente i ribelli.
Pure, Gheddafi si riconferma l’osso duro che è sempre stato. A suo modo coerente fino in fondo, combattivo, pericoloso, furbo e, sebbene ormai più che settantenne, ancora disposto ad accettare le sfide più estreme.
Così ieri, per la terza volta in due giorni, è tornato a lanciare un comunicato audio di sfida alla Nato accompagnato da un accorato appello alla mobilitazione popolare contro quelli che considera «gli invasori» e i loro collaborazionisti, «traditori» autoctoni. «La Libia è per il popolo libico e non per gli agenti stranieri. Non è per l’imperialismo. Non è per la Francia, non per Sarkozy. Non è per l’Italia. Tripoli è per voi. Non per chi affida il proprio destino alla Nato», esclama dal canale della tv Al Orouba di cui è direttore il figlio Saif al Islam.
Come sempre, una caratteristica della sua retorica, Gheddafi si dipinge come il legittimo erede della lotta contro il colonialismo italiano. Inevitabile il suo parallelo tra le «battaglie dei nostri nonni contro l’invasore italiano nel 1911» e quelle attuali contro la Nato. I ribelli, a suo dire, sono peggio dei collaborazionisti del generale Graziani che facilitarono la cattura di Omar Al Mukhtar, l’eroe nazionale libico per eccellenza. Il suo è un appello per la Jihad (la guerra santa) lanciato a tutte le fasce della popolazione: «Scendano in piazza a combattere anche vecchi, donne e bambini» aggiunge. Ma soprattutto tiene a ricompattare gli antichi legami tra le tribù «per battere i ratti, i crociati e i miscredenti».
I ribelli lo cercano sotto terra. E hanno ottimi motivi per farlo. Le immagini dei giganteschi bunker sotterranei appena conquistati nel compound blindato di Bab al Aziziya sono davvero impressionanti. La gente è incollata alle televisioni, non appena torna la corrente elettrica. Un complicato dedalo di gallerie, passaggi segreti, depositi protetti sotto metri e metri di cemento armato, si snodano per oltre sei chilometri. Stanno cercando le uscite segrete in diverse zone della città : l’hotel Rixos, ville private, ministeri, caserme, ma anche luoghi del tutto anonimi per garantire fughe veloci e discrete in momenti di crisi. Ieri pomeriggio, sul tardi, ci siamo calati anche noi nelle gallerie che partono da una botola poco distante dal palazzo-mausoleo distrutto dalle bombe Usa nel 1986. L’entrata sembra un tombino, praticamente invisibile. All’interno, almeno quattro metri sotto terra, parte una galleria annerita dagli incendi delle bombe ad alta capacità di penetrazione, lanciate dalla Nato negli ultimi mesi. In luglio, quando già eravamo entrati nel compound scortati dai portavoce e dagli agenti della dittatura, i crateri della bombe alleate mettevano a nudo alcune gallerie. In quei giorni una folla di militanti e ospiti africani inscenavano manifestazioni di condanna dei raid all’arrivo dei giornalisti. Ora Bab al Aziziya è vuota, spettrale, pattugliata unicamente dai ribelli e occasionalmente visitata da gruppi di saccheggiatori (in molti casi le due categorie coincidono).
Sotto terra, ogni 200-300 metri, si incontrano stanzoni usati dagli ufficiali del regime, specialmente per il monitoraggio della popolazione e per la repressione delle eventuali opposizioni. In uno troviamo materiale radio e tv che sembra servisse per diffondere la propaganda anche dopo che le emittenti nazionali erano state distrutte dalla Nato. In un’altra sono appesi ai muri grandi monitor, ora resi inservibili, ma che sembra fossero utilizzati per controllare zone specifiche della città .
La golf cart, già mostrata dalle tv internazionali negli ultimi giorni, e che serviva per trasportare i Vip lungo i corridoi, è ridotta in una carcassa di lamiere. In un’area troviamo centinaia di video che sembra costituissero gli archivi dell’intelligence. Nelle stanze adibite ad arsenali militari ci sono le scatole intatte e i foderi di migliaia tra pistole calibro 9 e fucili mitragliatori, tutti rigorosamente marca Beretta. A lato, letteralmente montagne di casse di munizioni italiane. Ricordano da vicino gli arsenali che avevamo trovato nella zona dei palazzi presidenziali di Saddam Hussein, dopo l’arrivo dei soldati americani, il 9 aprile del 2003. Ci sono persino alcuni fucili e spade d’oro donati da qualche emiro del Golfo. Esattamente come quelle che erano state donate a Saddam. Con una differenza fondamentale però: i depositi di Gheddafi appaiono molto più vasti, diffusi, ricchi.
Sulla capitale permane l’incertezza. I cecchini rendono la quotidianità difficile, nubi nere si stagliano all’orizzonte, il porto rimane inutilizzabile, il traffico scarso, i negozi quasi tutti chiusi. I combattimenti maggiori si stanno spostando verso Bani Walid, Sirte, Sebha. Le regioni note per le tribù più fedeli al Colonnello. Sirte, vicino alla quale sta il suo villaggio natale, viene attaccata da Est lungo l’asse Brega-Ras Lanouf e da Ovest, dove le colonne in arrivo da Tripoli ora congiunte con quelle di Misurata, sono ormai a circa 50 chilometri. Una gigantesca morsa a tenaglia che vorrebbe ricacciare i lealisti e costringerli alla resa o alla fuga a Sud, per il deserto. «Stiamo accerchiando Sirte, i nemici ormai possono evacuare verso l’oasi di Sebha», spiega un portavoce dei ribelli, Mohammad Zawawi.
È dunque in questa sperduta oasi nel deserto, a circa 800 chilometri a Sud della fascia costiera, che si dovrebbe combattere la battaglia finale della rivoluzione libica. Una rivoluzione che, a detta del suo leader, il presidente del Consiglio Nazionale Transitorio, Mahmoud Jibril, avrebbe già causato almeno ventimila morti. Il Cnt ha annunciato ieri il trasferimento a Tripoli, dove formeranno il governo della nuova Libia.
Da Sebha, Gheddafi, tradizionalmente, fa transitare i suoi sostenitori e mercenari africani per convogliarli sulle città costiere. E proprio da qui potrebbe cercare di far perder le proprie tracce e sparire nel profondo del Sahara. I ribelli contano, però, sulla Nato, la cui aviazione potrebbe annientare più facilmente i lealisti, senza rischiare di colpire i civili. E forse monitorare con più facilità gli eventuali spostamenti del Colonnello in campo aperto.
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Amnesty: “In Libia violazioni da entrambe le parti, detenuti uccisi dai lealisti”
Ribelli a Tripoli – Foto: ©Euronews
Una delegazione di Amnesty International, giunta in Libia martedì 23 agosto, ha raccolto testimonianze di detenuti che hanno subito torture sia da parte dei soldati pro-Gheddafi che da parte delle forze ribelli nella zona di Az-Zawiya. Amnesty si è perciò appellata a entrambe le parti coinvolte nel conflitto in corso in Libia chiedendo loro di proteggere i detenuti dalla tortura.