Nato: prima, durante, dopo

by Sergio Segio | 24 Agosto 2011 6:00

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 Forse per la vittoria finale non ci sarà  neppure bisogno di aspettare il primo settembre. Che sarebbe (stata) una data dal forte potere simbolico: fu il primo settembre ’69 che il gruppo degli «Ufficiali liberi» guidato dal giovane colonnello Muammar Gheddafi lanciò il golpe indolore che avrebbe cacciato il putrido e corrotto regime di re Idriss, un burattino nelle mani degli inglesi. Cacciare Gheddafi il primo settembre 2011, quarantaduesimo anniversario dalla «rivoluzione», avrebbe (avuto) una potente valenza per gli insorti.

Qualche giorno prima o dopo non cambierà  il corso della storia. E la storia dice che Gheddafi ha chiuso – qualunque sia la sua sorte – e che al posto della Jamahiriya sta per nascere una nuova Libia che nessuno sa ancora bene cosa sarà .
Bisogna dare atto al valore e al coreaggio degli insorti, ma senza l’apporto delle bombe e missili della Nato «la Rivoluzione del 17 febbraio» partita da Bengasi non avrebbe mai vinto e non sarebbe mai arrivata a Tripoli. Se c’è arrivata, dopo 5 mesi di impasse sul campo, lo deve alle « 20 mila missioni di volo» il cui «traguardo» è stato toccato proprio ieri e rivendicato orgogliosamente dalla portavoce Nato, Oana Lungescu. E, probabilmente, non solo di «missioni di volo» (Nato), di droni (Usa), di armi paracadutate (Francia), di materiale di comunicazioni (Gran Bretagna) si è trattato.
In molti si chiedono come mai, dopo 5 mesi di impasse sul campo, nel giro di pochi giorni – da domenica scorsa – le milizie degli insorti abbiano potuto attaccare e «liberare» Tripoli. Secondo la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza, votata il 17 marzo, l’Onu affidava alla Nato – divenuta l’agenzia militare delle Nazioni unite – il compito di proteggere i civili «con tutti i mezzi» eccetto che con l’invio di truppe di terra («boots on the ground»). Quella risoluzione era una foglia di fico per coprire l’intervento a tutto vapore, anzi a tutto missile, contro il regime di Gheddafi (che, per carità , anche se le bombe piovevano ogni notte sul suo compound di Tripoli, «non è mai stato un bersaglio per la Nato, come ha ripetuto anche ieri il portavoce militare). Un intervento diretto a proteggere i civili ma di una parte sola e a schierare il poderoso armamentario bellico e propagandistico in favore di una delle due parti in guerra infischiandosene dell’embargo che avrebbe dovuto valere per entrambe. Un intervento che escludeva a priori, nonostante si ripetesse quotidianamente la penosa litania delle necessità  di «una soluzione politica e non militare» della crisi libica (anche ieri), qualsiasi ipotesi di una via d’uscita negoziata che avrebbe dovuto/potuto essere imposto ai contendenti dalla «comunità  internazionale».
Di questo si è lamentato ieri a Johannesburg Jacob Zuma, presidente di un paese, il Sudafrica, che pure aveva votato la risoluzione di marzo per la no-fly zone, ma che poi ha criticato sempre più aspramente «l’abuso» del mandato ricevuto dall’Onu da parte della Nato e dei suoi sponsor occidentali. «Quelli che hanno il potere di bombardare altri paesi hanno stroncato gli sforzi e le iniziative dell’Unione africana per risolvere il problema libico», ha detto, «avremmo potuto evitare la perdita di tante vite umane».
E’ risaputo, nonostante i no comment e le smentite ufficiali di prammatica, almeno da aprile Francia e Gran Bretagna hanno inviato «consiglieri militari» fra le fila degli insorti. E ci sono voci che si rincorrono sulla presenza al fianco dei miliziani ribelli che hanno attaccato e fulmineamente conquistato Tripoli di uomini della Nato. La Nato ovviamente nega qualsiasi «coordinamento» degli attacchi degli insorti nella loro offensiva verso Tripoli (126 raid aerei nella sola giornata di domenica): «La Nato non ha e non avrà  truppe a terra», ha ribadito ieri la portavoce Lungescu. Idem l’italiano La Russa, ministro della difesa, «Non c’è nessuna probabilità  che truppe di terra della Nato, e particolarmente italiane, entrino a far parte del conflitto» in Libia. Anche il sito israeliano Debka, vicino al Mossad e quindi da prendere con le molle, sostiene che «nonostante i dinieghi, le truppe Nato stanno partecipando nei combattimenti a terra nella veste di “consiglieri militari» inglesi e francesi, membri delle unità  speciali, aiutando i ribelli libici a combattere per il controllo della capitale Tripoli».
Ma la vera campagna di Libia comincerà  dopo l’uscita di scena definitiva di Gheddafi, questo lo sanno tutti. Per cui si comincia già  a ipotizzare uno scenario in cui la Nato continuerà  ad avere un ruolo anche nel dopo: «un ruolo di supporto alla Libia se sarà  necessario e sarà  richiesto»,, anche se ovviamente «il ruolo principale sarà  dell’Onu e del gruppo di contatto». A pensare male sa fa peccato?
Intanto però bisogna chiudere la pratica Gheddafi. La Nato, i ministri degli esteri francese Juppé e turco Davutoglu (in visita a Bengasi) confermano che «la missione non è conclusa» e che c’è ancora «da proteggere la popolazione» (quale?). Di questo Juppé ha parlato lunedì in audio-conferenza con i colleghi inglese, americano, tedesco, turco e di qualche paese arabo amico (una riprova del peso dell’Italia nel dopo-Gheddafi). Ora che il dopo sembra arrivato, la diplomazia è in fibrillazione per sventare i timori ricorrenti («L’importante è che la transizione si compia nel rispetto dei diritti umani e della legge basata sulla riconciliazione e non sulla vendetta») e conquistare una posizione migliore nella divisione del bottino. Ieri si è tenuta a Bruxelles una riunione degli ambasciatori Nato; poi sarà  la volta del Gruppo di contatto che si riunirà  a Istanbul; entro la settimana ci sarà  un vertice Onu con partecipazione di Ue e Unione africana.

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