Naà­m: “Un governo forte dopo Gheddafi anche all’Italia serve una Libia stabile”

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La questione è cruciale per l’Italia perché nessun altro paese può beneficiare quanto il vostro, da una Libia stabile». Chi parla è Moisés Naà­m, uno dei massimi esperti di geopolitica e strategie internazionali, da sempre attento in modo particolare alle questioni energetiche e all’evoluzione dei paesi produttori di petrolio. Fondatore della rivista Foreign Policy, oggi impegnato come Senior Associate al Carnegie Endowment di Washington, Naìm affronta in questa intervista a Repubblica le questioni aperte a Tripoli e in tutto il mondo arabo.
Sei mesi per abbattere un regime durato 42 anni: fin qui il bilancio dell’intervento occidentale a sostegno della rivolta libica non è poi così male, avevano torto i critici di Barack Obama e della sua linea “soft”?
«L’Occidente, e anzitutto gli Stati Uniti, hanno applicato le lezioni dolorose che erano state apprese in Iraq e in Afghanistan. In Libia la strategia è stata ben diversa rispetto ai casi precedenti caratterizzati dall’uso massiccio e permanente della forza militare. Obama ha fatto bene a lasciare che alcuni paesi europei assumessero un ruolo di punta, ha avuto ragione lui a dispetto di chi ironizzava su quel modo di “dirigere dalle retrovie”. Stati Uniti, Nato, paesi europei hanno fatto di tutto per dimostrare che quella libica è una rivolta nazionale, non ha nulla a che vedere con presunte mire imperialistiche dell’Occidente né tantomeno con la questione israelo-palestinese».
Questo relativo successo può essere replicato anche nel “dopo”?
«È questo il punto. La lezione dell’Iraq e dell’Afghanistan diventa ancora più importante adesso. Bisogna evitare che la Libia precipiti in una violenta anarchia, impedire una contro-rivoluzione, scongiurare l’emergere di correnti nazionalistiche anti-occidentali. E minimizzare l’influenza di agenti esterni: Al Qaeda o l’Iran. Infine occorre creare condizioni per un dinamismo economico, la ripresa dell’occupazione, il che implica la costruzione di un governo forte. È il paradosso delle dittature: dietro di sé lasciano uno Stato debole, paesi senza istituzioni, senza una società  civile dinamica, senza un esercito e una polizia che non siano i pretoriani del tiranno. Il grande interrogativo, oggi, è se i libici sapranno creare le condizioni per una convergenza e uno sforzo di unità  nazionale».
Può cambiare qualcosa nel ruolo della Libia sul mercato petrolifero mondiale? Possono cambiare le alleanze, i rapporti storici con i paesi clienti?
«Anzitutto è chiaro che la Libia resterà  un petro-Stato, come durante il regime di Gheddafi. La sua vocazione economica è determinata da fattori che vanno oltre la natura del governo: le geologia, la geografia, la storia. Il peso delle infrastrutture già  esistenti ha un’influenza determinante anche sulle strategie future, e questo crea un vantaggio indubbio per l’Italia. È proprio l’Italia il paese che avrà  più da guadagnare da una Libia stabile».
Le vicende dell’intervento Nato però hanno creato qualche timore sui rapporti futuri Italia-Libia. Francia e Inghilterra si sono mosse con più decisione, senza ambiguità  né tentennamenti, con una chiara scelta di campo fin dall’inizio in favore del Cnt. Sarkozy e Cameron potranno insidiare il ruolo politico e le quote di business energetico dell’Italia?
«Io penso all’Italia del dopo-Berlusconi. Non c’è dubbio che i legami storici tra Italia e Libia possono essere danneggiati, distorti o troncati per ragioni di politica interna inerenti ai due paesi. Non bisogna però minimizzare il peso dell’eredità  storica, non sarà  facile per la Francia e la Gran Bretagna sostituirsi alla rete di contatti costruiti negli anni dalle imprese italiane come l’Eni».
Alla luce degli eventi in Libia, come va aggiornato il bilancio provvisorio del grande sommovimento cominciato a Tunisi e al Cairo, la cosiddetta primavera araba che ormai volge verso l’autunno?
«Siamo ancora al prologo di una storia lunghissima. Il fatto che in molti paesi arabi i venerdì di preghiera siano diventati degli appuntamenti di protesta, può generare un miraggio: l’illusione che siamo di fronte a un solo movimento, una sola causa, quindi un solo risultato. L’effetto-contagio è reale, ma ogni paese ha caratteristiche diverse, il modo in cui è caduto Ben Ali non è lo stesso di Mubarak né Gheddafi».
Dunque è prematura l’analogia con l’89 nell’Est europeo, la speranza che l’intero mondo arabo si evolva verso la democrazia e un atteggiamento filo-occidentale?
«L’evoluzione democratica è una speranza, è una possibilità , è uno scenario: ma non è l’unico. Se ai governi autoritari dovesse seguire un periodo di anarchia o instabilità , insicurezza, violenza o crisi economica, le popolazioni di quell’area potrebbero riscoprire appetiti autoritari. I cittadini in rivolta contro i tiranni vogliono libertà , ma chiedono anche di non morire quando escono per strada, o di non essere impoveriti dalla stagnazione economica».
Dipenderà  anche da noi? È tempo di realizzare il piano Marshall per il Nordafrica, che Obama lanciò al G8 di Deauville?
«Noi dobbiamo fare tutto il possibile perché l’evoluzione di quei paesi avvenga in senso democratico, però non illudiamoci che tutto dipenda da noi. È una pericolosa illusione, pensare che le riforme istituzionali ed economiche in un paese come l’Egitto possano accadere come conseguenza di un piano del G8. Tra l’altro non c’è nessun segno che i paesi del G8 sappiano come si modernizzano le economie sottosviluppate. Quei paesi poveri che si sono trasformati in potenze emergenti, lo devono anzitutto alle loro classi dirigenti. Gli aiuti servono, ma un paese come la Libia ha ricchezze proprie, non sono i capitali che le mancano. Per determinare il futuro di quell’area conta più il Cairo di Bruxelles».


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