by Sergio Segio | 30 Agosto 2011 6:28
FARAH (AFGHANISTAN).A Farah, capoluogo dell’omonima provincia afghana al confine con l’Iran, c’è una scuola femminile dedicata a una bambina di tredici anni, Benafsha. Il 3 maggio del 2009 Benafsha stava raggiungendo Herat con la famiglia, per partecipare al matrimonio di un parente, quando è stata colpita e uccisa da un soldato italiano. Secondo la ricostruzione dell’esercito, la macchina su cui viaggiava la bambina non si sarebbe fermata, nonostante i tre mezzi del convoglio militare avessero adottato le procedure di avvertimento previste. L’uccisione di Benafsha sarebbe dunque un «tragico incidente», come dichiarato allora dal ministro della Difesa Ignazio La Russa. A Farah siamo riusciti a incontrare il padre della ragazza, il procuratore Arif Khan Shaim, 45 anni, che racconta per la prima volta a un giornale italiano la sua versione dei fatti: criticando le procedure dei militari italiani, il mancato soccorso della ragazza, gli inganni successivi delle autorità italiane, e, più in generale, la presenza sul suolo afghano di eserciti che operano al di fuori di ogni legge, a eccezione della propria.
Procuratore, ci vuole raccontare cosa è accaduto il 3 maggio 2009?
Eravamo invitati a un matrimonio a Herat, così, intorno alle 6 del mattino, tutti la mia famiglia – non io, che avrei dovuto raggiungerli il giorno dopo – è partita in macchina, insieme ad altri quattro parenti. Quel giorno pioveva, il tempo era pessimo, l’autista – il marito della sorella di mia moglie – non riusciva a vedere a un palmo dal suo naso, i finestrini erano chiusi per non far prendere freddo ai bambini, e una donna si preoccupava di pulire il parabrezza. Senza contare che erano dodici in macchina, una Toyota “saracha”. Secondo il racconto di mia moglie e degli altri presenti, non si sono accorti che stessero incrociando un convoglio militare. Improvvisamente, sono arrivati due colpi, finiti sul retro della macchina, senza ferire nessuno, poi altri due colpi, e infine un ultimo colpo, laterale, esploso quando i due mezzi erano affiancati. Quel colpo ha raggiunto mia figlia in pieno volto: il suo sangue, insieme a pezzi del cervello, è finito sul bambino che le sedeva accanto. E’ così che ho perso mia figlia.
Subito dopo, cosa è successo? Sua figlia è stata soccorsa?
Il comportamento dei soldati italiani è stato ingiustificabile. Quando si sono resi conto di aver ucciso un’innocente, e che nella macchina c’erano solo donne e bambini, nessun taleban né nemico, quando hanno visto le donne che piangevano, che si lamentavano, che chiedevano perché avessero sparato, non hanno fatto altro che tornarsene sui loro mezzi. Avrebbero dovuto prestare soccorso, aiutare la mia famiglia, e invece hanno semplicemente ripreso la loro strada, come se nulla fosse accaduto. Il corpo di mia figlia è stato portato all’ospedale di Herat dai parenti che aspettavano la mia famiglia all’ingresso della città , come si usa in queste occasioni: avendoli sentiti poco prima e non vedendoli arrivare si sono preoccupati. Hanno richiamato e saputo dell’incidente e sono corsi sul posto.
In seguito è mai stato contattato dalle autorità italiane o da qualche rappresentante delle forze Isaf-Nato in Afghanistan?
Durante il secondo giorno di preghiere per mia figlia, mi ha chiamato il governatore di Farah, che conosco personalmente per questioni di lavoro: mi ha detto di andare nel suo ufficio, perché gli italiani volevano incontrarmi. Quel giorno l’incontro è saltato, e ho perso mezza giornata di preghiere per mia figlia, ma il giorno successivo ho incontrato due militari di alto grado, credo fossero generali, un afghano e un italiano. Il generale italiano mi ha fatto le condoglianze, spiegandomi che il soldato aveva sparato di colpo, senza voler uccidere intenzionalmente. Ha aggiunto poi che, secondo le ricerche effettuate, i colpi erano stati sparati sull’asfalto, non direttamente sulla macchina. Secondo lui, il proiettile che aveva ucciso mia figlia aveva rimbalzato sul terreno, prima di colpirla. Gli ho risposto che non era così, che avremmo dovuto parlarci francamente, perché non volevo essere preso in giro. Quel colpo era diretto, aveva colpito direttamente il vetro. Anche loro alla fine hanno convenuto. Gli ho detto poi che per fermare una macchina si spara sulle gomme, oppure sul motore. Gli italiani non l’hanno fatto: hanno sparato sui finestrini e sul parabrezza. Volevano uccidere, non fermare la macchina.
Le risulta che chi ha ucciso sua figlia abbia subito un regolare processo?
L’ho chiesto io stesso al generale: ovunque nel mondo esistono delle leggi, cosa ne è di chi ha ucciso mia figlia? Mi ha risposto che il militare era sotto custodia, in attesa del processo. Gli ho ricordato che esistono delle leggi internazionali, e che nel caso un afghano commettesse un crimine in Italia verebbe perseguito secondo le leggi italiane. L’uomo che ha ucciso mia figlia era sul territorio afghano: se voleva che gli credessi, che credessi che gli italiani sono nostri amici, avrebbe dovuto lasciare che fosse sottoposto alle leggi afghane. Avrei accettato qualunque verdetto. Mi è stato risposto che avrebbero applicato le proprie regole, che il militare avrebbe subito un processo, e che mi avrebbero fatto sapere.
E le hanno fatto sapere?
Qualche giorno dopo quell’incontro, sono stato contattato da un traduttore afghano, per conto degli italiani: mi ha detto che si stava celebrando il processo in una località estera, e aspettava di sapere quale esito mi augurassi, cosa volessi. Il prefisso dimostrava però che la chiamata proveniva dall’Afghanistan, così ho risposto che sarei andato in qualunque provincia del paese pur di assistere al processo, che ne avevo diritto, che non volevo essere preso in giro: quella chiamata era basata su una bugia, e non avrei creduto a nessun giudizio fondato su una bugia. Ho riattaccato il telefono senza aggiungere altro.
Da allora, è riuscito ad avere altre notizie sull’esito del processo?
Nient’altro. Non ho saputo più nulla. Non sono riuscito a vedere una foto, un fascicolo giudiziario, un verdetto, un nome, niente di niente. Sono convinto che fosse tutta una presa in giro, un modo per farmi contento. Credo che a quel militare non sia accaduto proprio nulla.
Si fida ancora dei soldati italiani e delle forze internazionali presenti nel suo paese?
Come ci si può fidare di chi mente in questo modo, di chi uccide tua figlia e poi cerca di prenderti in giro sulla sua morte?
Le sono mai stati proposti dei soldi, come «risarcimento»?
Durante l’incontro negli uffici del governatore mi hanno proposto dei soldi. Non li ho presi, sostenendo che fosse contrario all’Islam e alla nostra cultura accettare una compensazione simile. Hanno insistito molto, e ho rifiutato più volte. Inoltre, sono un ufficiale pubblico, ho la responsabilità di mandare in galera o rilasciare le persone, e non ho mai abusato della mia posizione, rifiutando sempre di prendere bustarelle perché sono convinto del mio lavoro e felice della mia condizione. In Afghanistan la corruzione è molto diffusa, ma io ne sono estraneo. Sta di fatto che il giorno dell’incontro dal governatore ad accompagnarmi, ed aspettarmi all’uscita, c’era l’uomo che guidava la macchina: qualche giorno dopo, mi ha confessato di aver ricevuto dagli italiani diecimila euro: per riparare i danni della macchina, così gli hanno detto. Sono molto deluso che abbia accettato quei soldi.
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