«Riyadh entra a gamba tesa nelle primavere arabe»
IL CAIRO. Il mondo islamico sunnita scende in campo contro il presidente alawita (sciita) Bashar Assad. Ad alzare la voce di fronte alle decine di civili uccisi nelle città sunnite di Hama e Dayr az-Zor sono stati emiri e re del Golfo, capeggiati da Abdallah dell’Arabia saudita, che hanno richiamato gli ambasciatori a Damasco e rilasciato dichiarazioni durissime contro il regime siriano. Sono andati ben oltre il comunicato preoccupato diffuso dalla Lega Araba e il loro passo conferma come la protesta in Siria, cominciata sull’onda della«primavera araba» per la democrazia, la libertà e i diritti, ha assunto le caratteristiche di un conflitto settario, di uno scontro tra sunniti e sciiti già visto in diversi paesi della regione, specie in Iraq, negli ultimi anni. Sullo sfondo c’è lo scontro a distanza tra Arabia saudita e l’Iran sciita, stretto alleato della Siria, per il controllo strategico della regione. Ne abbiamo parlato con Emad Gad, analista del Centro Al Ahram per gli studi strategici del Cairo, specializzato in islamismo e rapporti tra cristiani e musulmani.
Nella crisi siriana scendono in campo l’Arabia saudita e altre monarchie del Golfo, persino quella assoluta del Bahrein che ha represso la sua rivolta per la democrazia, condotta in maggioranza dai cittadini sciiti.
Questo intervento era atteso da tempo. L’Arabia saudita si considera un baluardo del sunnismo nella sua versione wahabita. Di fronte al massacro di tanti siriani di fede sunnita, re Abdallah e gli altri regnati del Golfo hanno voluto mandare un segnale molto forte ad Assad: non resteremo in silenzio, soprattutto non resteremo a guardare ma agiremo con forza. Damasco perciò affronterà un pesante isolamento non solo da parte occidentale ma anche di questi paesi.
Non è nuovo però il protagonismo saudita…
Riyadh è molto coinvolta nelle vicende regionali. L’inizio della «primavera araba» ha fatto scattare l’allarme nella capitale saudita. La monarchia dei Saud ha temuto che l’onda della protesta giovanile potesse travolgerla come è avvenuto ai regimi di Egitto e Tunisia. Per questo ha agito per impedire che la rivolta araba raggiungesse il Golfo. Lo dimostra l’intervento armato in Bahrein in appoggio alla monarchia locale. Il caso siriano tutto è molto complesso. Nessun leader arabo vuole la caduta rovinosa del regime di Assad perché potrebbe innescare una guerra civile come è avvenuto in Iraq dopo l’invasione anglo-americana. Riyadh in realtà vuole vedere il regime siriano fortemente indebolito, nella condizione di dover offrire la fine dell’alleanza con Tehran in cambio della sua sopravvivenza. E rompere l’allenza con gli iraniani per Damasco vorrebbe dire dover rinunciare anche al rapporto privilegiato con il movimento sciita libanese Hezbollah. Un Assad fragile, costretto al compromesso, metterebbe fine al revival sciita al quale abbiamo assistito in questi anni di pari passo con la crescita della potenza iraniana.
Ma Riyadh si muove anche in Egitto, con finanziamenti ai salafiti.
Certo, per impedire, con il caos e l’estremismo, che il modello egiziano per uno Stato civile fondato sul diritto possa diventare regionale. I salafiti egiziani sono molto vicini al wahabismo e stanno ricevendo finanziamenti pubblici e segreti da varie fonti saudite. Rappresentativi della base religiosa più povera della nostra società , oggi i leader salafiti si dicono pronti anchre ad aprire una loro banca. Si può immaginare la provenienza dei capitali.
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