by Sergio Segio | 8 Agosto 2011 7:02
NEW YORK — Adesso molti di quelli che giudicavano fino a ieri impensabile un downgrading del debito Usa per le conseguenze devastanti che avrebbe avuto in tutto il mondo, diranno che quella decisione di Standard &Poor’s era ormai scontata. Non Carmen Reinhart, capo economista del’Istituto di economia internazionale di Washington, docente dell’Università del Maryland e coautrice, con Ken Rogoff, di «Questa volta è diverso» , lucida analisi delle conseguenze della crisi globale scoppiata nel 2008 (pubblicata in Italia dal Saggiatore). La Reinhart aveva, infatti, già scritto una settimana fa sul Financial Times che, con o senza accordo al Congresso sul debito federale, ormai il voto negativo delle agenzie di rating era da considerare scontato.
Aveva ragione lei, professoressa. E magari anche il capo della Bce, Jean-Claude Trichet: due giorni fa aveva detto che l’eurozona sta messa molto meglio degli Stati Uniti. «Ha detto così? Beh, dimostra un bel senso dell’umorismo» .
Perché? «L’anno scorso, in uno studio preparato per il summit dei banchieri centrali a Jackson Hole, abbiamo dimostrato, Vincent e io (il marito della Reinhart è anch’egli un celebre economista, ndr), che quello del debito è un problema grave e pressante in tutta Europa, ad eccezione della Germania. Il default pilotato della Grecia ha aperto una strada. Il settore privato sarà chiamato a contribuire alla ristrutturazione del debito che, per motivi diversi, dovrà essere effettuata dal Portogallo e dall’Irlanda» . Poi toccherà all’Italia o basterà il sostegno della Banca centrale europea? «Nonostante le fibrillazioni di questi giorni e le debolezze dei due Paesi, non vedo né l’Italia né la Spagna in questo gruppo. Ma arriveranno altri tipi d’intervento sul risparmio» .
Come ne usciamo? Noi italiani, intendo, ma anche gli Usa che dopo il downgrading saranno di nuovo sotto pressione sul debito. Avremo davvero una reazione a catena e tassi più alti in tutto il mondo? «Ci sarà una pressione da arginare, certo. I tempi, forse, non sono ancora politicamente maturi, i governi nicchiano, ma è sempre più evidente che da questa crisi non si esce senza un trasferimento di ricchezza dai creditori ai debitori. Che può avvenire in vari modi, dai write-off all’inflazione» .
Lei qualche tempo fa ha pubblicato un interessante saggio sulla cosiddetta «repressione finanziaria» : le tecniche usate da molti governi per sgonfiare il loro debito pubblico dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Inflazione, «austerity» , ma anche strumenti che oggi chiameremmo di credito amministrato per spingere le istituzioni bancarie, e poi anche il pubblico, ad accettare tassi d’interesse più bassi di quelli di mercato per il debito sovrano, i titoli di Stato. Pensa a un ritorno di elementi di quel modello? «Distinguerei — risponde la Reinhart— tra interventi di politica economica per rilanciare l’economia americana e gestione del debito pubblico negli Usa, ma anche in Europa e Giappone. Sul primo punto un altro intervento di stimolo fiscale come quello varato da Obama all’inizio del suo mandato è politicamente improponibile. Ma emergerà uno stimolo di tipo diverso: non una manovra keynesiana, ma un sostegno ai proprietari delle case schiacciati dai mutui che oggi sono il principale freno alla ripresa. Serve anche per loro una ristrutturazione del debito, come quella allo studio per alcuni Stati europei» .
Obama nel 2009 aveva provato ad aiutare i debitori in difficoltà , ma fu messo a tacere dalla reazione inferocita dei contribuenti che non volevano svenarsi per aiutare il vicino di casa che aveva fatto il passo più lungo della gamba. «Non ho detto che sarà facile né immediato. Nell’anno elettorale non accadrà nulla. Ma chi guarda avanti con realismo sa che buona parte di quei crediti sono ormai irrecuperabili. Un quarto dei proprietari americani vive in case che valgono meno del mutuo da rimborsare» .
E il debito pubblico federale e degli altri governi? «Credo che torneranno forme di quella che ho definito financial repression. Usiamo altre parole: davanti a uno stress finanziario i governi reagiscono introducendo regole chiamate in gergo “macroprudenziali”. In una situazione in cui quasi tutti i governi devono fronteggiare un eccesso di indebitamento statale, inevitabilmente verranno escogitate forme di pressione sulle “captive audiences”: fondi pensione e istituzioni finanziarie dei singoli Paesi, essenzialmente banche e assicurazioni. Non immagino certo il varo di un grande Financial Repression Act 2012, ma penso che qua e là spunteranno interventi che non avranno l’etichetta formale del controllo sui capitali, ma avranno comunque l’effetto di riorientare alcuni canali d’investimento verso il mercato domestico e, soprattutto, i titoli di Stato» .
Le pare fattibile? In Italia gli anni del credito amministrato hanno lasciato ricordi assai brutti. «Non è una bella cosa, lo so, ma quali sono le alternative? Il problema si presenta con intensità diverse da Paese a Paese e quindi ognuno troverà forme adatte alla gravità dei nodi che deve sciogliere. Non so se avremo coordinamento multilaterale in questo campo. Noto solo che in passato le direttive per il credito non sono state, di certo, un’esclusiva dell’Italia. La Francia ne introdusse alcune ancora negli anni 80. E non dimentichi che negli Usa ancora nel 1982 era vietato corrispondere interessi sui conti correnti mentre i depositi di risparmio avevano limitazioni piuttosto severe» .
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