L’offensiva arriva all’Eufrate

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 DAMASCO.Nel mirino ora c’è Deir al Zoor. Dopo Hama – dove da 9 giorni con il supporto di mezzi blindati pesanti e con l’uso di artiglieria l’esercito e le forze di sicurezza stanno conducendo un’operazione che ha causato oltre 120 vittime civili – ora si tratta di «riportare all’ordine» la cittadina sulle sponde dell’Eufrate, capoluogo della regione più ricca di petrolio ma con la popolazione più povera tra le 14 province siriane.

Come Hama, anche Deir al Zoor aveva visto manifestazioni con centinaia di migliaia di persone nello scorso mese, ed era scivolata fuori dal controllo dell’autorità  di Damasco. Le comunicazioni con Deir al Zoor sono state tagliate in questi giorni ed è impossibile parlare con i nostri contatti. Dopo 9 giorni di assedio, domenica all’alba i carri armati sono entrati nella cittadina e alcune aree sono state bombardate.
I residenti raccontano di una grave situazione umanitaria: l’ospedale locale è stato chiuso e i feriti vengono curati in casa, scarseggiano medicine e viveri. Una donna è stata uccisi con i due figli mentre era in strada. Organizzazioni dei diritti umani parlano di oltre 50 vittime a Deir al Zoor e di 70 in tutto il paese.
Il copione è simile a quello già  conosciuto dalle altre città  assaltate dall’esercito, a cominciare da Daraa – dove erano scoppiate le prime proteste 5 mesi fa. La giustificazione ufficiale rimane la stessa: le operazioni militari sono dirette contro bande di terroristi e criminali armati. Sabato il presidente Bashar Al Assad ha elogiato l’esercito che «sta combattendo contro criminali, poiché è dovere dello stato difendere i propri cittadini». Ieri il presidente ha anche nominato Dawood Rajiha nuovo ministro della difesa al posto di Ali Habib.
Dall’inizio delle proteste in Siria si combatte una «guerra dell’informazione» tra la narrativa ufficiale e quella dei manifestanti, resa possibile dalle restrizioni poste dal governo siriano all’accesso dei media. I media siriani continuano a non citare le vittime civili mentre enfatizzano le perdite militari. Dalla parte dei manifestanti, la fonte di notizie sono i video messi su youtube da attivisti diventati con il tempo sempre più professionali (ormai ad esempio viene sempre citato data e luogo).
Il governo accusa «criminali»
Dopo la settimana più sanguinosa (oltre 300 le vittime) dall’inizio delle proteste, crescono le condanne internazionali contro le violenze del governo siriano – dal Consiglio degli Stati del Golfo alla Lega Araba, da Ban Ki Moon a papa Benedetto XIV. Le condanne più pesanti giungono dal principe saudita Abdallah, che ieri ha richiamato il proprio ambasciatore per consultazioni come ha già  fatto l’Italia, e dal primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, che ha «finito la pazienza» e inviato il proprio ministro degli esteri oggi in Siria con «un messaggio forte». Ad Erdogan ha risposto la consigliera del presidente Butheina Shaaban anticipando che «ascolterà  un messaggio ancora più forte sulle evidenze di cospirazione violenta contro la Siria». Nel clima di crescente isolamento internazionale, il ministro degli esteri siriano Muallem ha annunciato che entro la fine dell’anno si terranno elezioni legislative «libere e democratiche».
Ma se il focus è su Deir al Zoor, operazioni militari sono state condotte anche a Marat Al Nauman vicino Idlib e nei dintorni di Homs, mentre carri armati restano a Hama e in alcune sone di Homs.
Ieri è stato arrestato a Damasco il noto oppositore Walid al Bunni. «È evidente che il regime vuole evitare l’intesificarsi delle proteste durante Ramadan», ci dice Samir, un’attivista di Damasco; «in alcuni sobborghi caldi della capitale, come Moadamya e Berzeh, hanno vietato l’ingresso in moschea agli uomini dai 15 ai 50 anni. Ma nonostante tutto ciò si ripetono manifestazioni in tutto il paese, soprattutto la sera dopo le preghiere del taraween».
La domanda, cresciuta negli ultimi giorni nei media internazionali tra versioni contrastanti di filmati che mostrano cadaveri gettati in un fiume da civili armati, è se gruppi di manifestanti siano ricorsi alle armi. Ed è la domanda che puniamo ad alcuni attivisti e osservatori.
Wasim, un coordinatore delle proteste ad Homs, è categorico: «Le proteste collettive sono pacifiche, la gente scende in strada senza armi, e sono rimaste tali nonostante le violenze delle forze di sicurezza. Ci possono essere episodi di vendetta individuale o di autodifesa. I soldati ammutinati sono armati. Ma se a Hama o ad Homs fosse in corso un’inserruzione armata organizzata, i numeri delle vittime sarebbero diversi».
«Gruppi armati che cercano di approfittare del caos del paese esistono, magari legati al contrabbando di armi come al confine con il Libano o agli ambienti dell’insurrezione in Iraq contro gli americani, che il regime siriano ha sostenuto per anni con uomini e mezzi. Ma sono marginali rispetto alle migliaia di siriani che protestano pacificamente rischiando di essere ammazzati o arrestati», continua Samir.
Una protesta senza leader
In Siria la protesta resta senza leader, anche se nel corso dei mesi «ci siamo organizzati meglio, abbiamo diviso i compiti, ci siamo coordinati con altre città », continua Wasim. «Questo è un punto di forza, perché qualsiasi leader sarebbe subito arrestato. E poi questa generazione di attivisti cresciuta sotto un regime autoritario è stanca di avere leader» spiega Rami Nakhle, del Coordinamento dei comitati locali, piattaforma della proteste. «I governi occidentali vorrebbero avere una lista di 20 nomi con cui parlare. Questa lista non esiste. Sarà  il risultato degli eventi», aggiunge Wisam Tarif, altro attivista. E’ la strada, fatta in maggioranza da giovani, la vera protagonista della protesta, diversa dalla tradizionale opposizione, una variegata composizione di intellettuali, difensori dei diritti umani, partiti curdi e islamisti, con cui pure, nel corso dei mesi ed attraverso varie conferenze, sono aumentate le occasioni di coordinamento.


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