L’ingordigia di Sacconi si mangia l’articolo 18

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 Sarà  stato, come dicono, per animosità  ideologica; ma è certo che c’entrano anche ingordigia e cinismo. Ad ogni modo, conta soltanto che la straordinaria opportunità  di far fuori in un colpo solo contratto nazionale di lavoro e l’art. 18 il ministro Maurizio Sacconi non se l’è fatta scappare. Anche se in questa maniera ha finito per rovinare il suo giocattolo preferito: lo «statuto dei lavori» per varare il quale nel novembre dell’anno passato aveva deciso di chiedere al Parlamento l’autorizzazione ad emanare decreti legislativi, previa identificazione di «un nucleo di diritti universali e indisponibili» e, conseguentemente, della «rimanente area di tutele» rimodulabili dalla contrattazione collettiva.

Poi, le cose sono precipitate e si è voluto bruciare i tempi al punto di considerare superflua la legge-delega. Come se la contrattazione collettiva potesse essere abilitata dal legislatore a fare tutto (o quasi) da sola. E non già  la contrattazione sindacale a livello nazionale – il cui ruolo, anzi, il governo vorrebbe svuotare, con buona pace delle parti sociali che, sia pure con l’usuale ambiguità , hanno recentemente espresso un parere opposto – bensì la contrattazione «di prossimità », come il ministro definisce (chissà  perché) l’attività  negoziale delle rappresentanze sindacali aziendali. Sennonché, l’infatuazione del ministro per l’autonomia collettiva privato-contrattuale non può certo giustificarne la scelta di equiparare le trattative concluse per soddisfare interessi privati al confronto parlamentare che precede una delega legislativa e ne traccia i binari.
Quindi, l’inaudita gravità  delle disposizioni in materia sindacale e del lavoro contenute nel decreto anti-crisi consiste anzitutto nella licenza di violare le più elementari regole di una democrazia costituzionale, esautorando il Parlamento a beneficio (anche qui) dei soliti noti. Nel dopo-crisi, infatti, il diritto del lavoro sarà  ciò che risulterà  dalla sommatoria di nuclei o segmenti regolativi a misura delle esigenze delle singole aziende, con la conseguenza che il principio costituzionalmente rilevante dell’eguaglianza dignitosa dei trattamenti economico-normativi cederà  il posto al festival delle diseguaglianze.
La lesione ha proporzioni colossali. Al suo cospetto sa soltanto di eccentricità  – che in un altro frangente avrebbe suscitato ilarità  – la norma del decreto-manovra che attribuisce ai contratti aziendali in deroga anteriori all’accordo interconfederale del 28 giugno quell’efficacia vincolante per tutto il personale di cui il contratto nazionale è tuttora sprovvisto, anche se fosse approvato «con votazione a maggioranza dei lavoratori» (come la Cgil chiede spesso invano e come è successo negli stabilimenti italiani della Fiat nei mesi scorsi su richiesta dell’impresa). L’eccezionalità  della previsione esigerebbe un discorso che ci porterebbe lontano. Qui ed ora, ci si può limitare a guardare cosa c’è dietro il singolare enunciato normativo. Dietro c’è la sfrontatezza di un governo che, disponendo di una maggioranza parlamentare compattamente orientata a certificare che Ruby è una nipote di Mubarak, ritiene di poterla sollecitare a trasformare in un atto avente forza di legge un contratto tra privati come quello di Pomigliano, dove è cominciata la vergognosa vicenda che ha traumatizzato il mondo del lavoro in questi mesi.
Stavolta, insomma, la spudoratezza ha superato il limite della tollerabilità . È come se il governo avesse concesso a sindacati e imprese la licenza di derogare praticamente all’intera normativa esistente in materia di lavoro – o, per usare il linguaggio allusivo prediletto dal ministro Sacconi, introdurvi «specifiche intese modificative» – e si fosse messo alla finestra per vedere come andrà  a finire. Fa un certo effetto vedere l’entusiasmo con cui la stessa persona che considera l’eutanasia un esecrabile delitto sponsorizza il suicidio assistito di un settore cruciale dell’ordinamento.
Il ministro ha ragione a dire che il decreto-manovra non abroga l’art. 18 che ormai è diventato la norma-simbolo del diritto del lavoro italiano e, al tempo stesso, la causa della paranoia del ministro almeno quanto lo è la magistratura per il premier. Anzi, nel testo del documento il termine «licenziamento» non compare nemmeno. Si preferisce usare una prosa professorale e, per individuare la materia negoziabile, si preferisce parlare di «conseguenze del recesso».
Tuttavia, il ministro non può dire – come invece ha detto durante la conferenza stampa del 13 agosto – che l’art.18 è rimasto intatto. Optando per la sua derogabilità  a opera della contrattazione collettiva in un contesto dilaniato dalla crisi dove l’unità  d’azione sindacale da poco recuperata non ha un futuro di cui fidarsi, in realtà  il governo ha spianato il terreno per la demolizione della norma statutaria. Quindi, ha trasmesso un messaggio di politica del diritto di questo tenore: la protezione legale dell’interesse del lavoratore è rinunciabile o, comunque, modificabile, se è questo che chiedono le imprese e le controparti acconsentono.
Declassato nella gerarchia degli interessi meritevoli della tutela dello Stato, l’interesse del lavoratore alla continuità  del rapporto è restituibile al potere unilaterale dell’impresa e alla logica del mercato. Il che non può piacere neanche a Bruxelles. Lassù, il minimo che potranno dire è che il nostro governo è stato più realista del re. Da anni, infatti, le istituzioni comunitarie conducono una zelante campagna propagandistica a favore di una riduzione delle tutele «nel» rapporto di lavoro in cambio di tutele «fuori», che anche da noi sono carenti. I giuristi dell’UE la chiamano flexisecurity. Che è un ossimoro, perché ambisce a segnalare la possibilità  di uno scambio presuntivamente virtuoso tra qualche protezione in più fruibile dal lavoratore alla ricerca del lavoro che ha perduto, o stenta a trovare, e la diminuita sicurezza dell’occupazione per effetto dell’accresciuta flessibilità  in uscita.
Di questo nel decreto-legge non c’è traccia. Ovviamente. Pertanto, visto come stanno andando le cose, in qualche azienda potrebbe succedere che la ri-regolazione delle «conseguenze del recesso» auspicata dal decreto per rilanciare (si fa per dire) lo sviluppo finisca per modellarsi sulla disciplina pattizia introdotta all’inizio degli anni ’50 nell’industria, secondo la quale il licenziato poteva attivare un collegio arbitrale – del tipo di quelli incoraggiati dal «collegato lavoro» ideato dallo staff del ministero competente e diventato legge di recente – con la prospettiva di ottenere, nella migliore delle ipotesi, un modico risarcimento. Può darsi che un’eventualità  del genere rientri nell’orizzonte di senso in cui si muove il governo, ma non ci vuol molto a capire che comporterebbe un arretramento della civiltà  (non solo giuridica) del lavoro che abbiamo conosciuto. Come dire che la lunga e lenta marcia di avvicinamento del diritto del lavoro vivente ai principi della costituzione non solo si è arrestato. Ha anche invertito la direzione: Mauritio consule, ossia durante il consolato sacconiano, il licenziamento potrebbe tornare ad essere la capitis deminutio d’una volta.
Nella ricostruzione che un giorno si farà  di questa fase della cultura politica la specola linguistica non potrà  essere trascurata, se si vorrà  formulare una diagnosi esatta della patologia che colpiva la parola. La parola era malata perché il significato posseduto nel suo campo semantico originario era stravolto. Infatti, come la «restaurazione» dell’autorità  dello Stato venne spacciata in periodo fascista come il portato di una «rivoluzione», così nell’età  berlusconiana il riformismo ha subito una torsione capace di farne il paravento di una politica reazionaria. Questa malattia della parola, peraltro, non era insorta all’improvviso. Era figlia dell’atteggiamento gregario che la sinistra aveva tenuto nell’arco di troppi anni verso la cultura dominante, soprattutto in materia di lavoro.


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