Libia, i bambini e il Colonnello
I bambini di Bengasi disegnano Gheddafi. Il viso, la shiashia – quella specie di fez morbido – sulla testa, due rotondi scarabocchi di capelli tinti di nero che sbucano ai lati – come il nostro sor Pampurio, per chi ha l’età di ricordarlo. Il disegno è così stilizzato e variato che si capisce che avevano imparato tutti a farlo, quando era un compito di devozione per il padre della patria, e ora lo rifanno, ma gli storcono la bocca all’ingiù e lo appendono a un patibolo, o gli mettono al collo una corda i cui anelli salgono come un fumo. Oppure lo disegnano intero e già piegato, con la djellaba e le braccia alzate, mentre una grossa bomba dal cielo sta per colpirlo. Oppure come un cane, credo: cane è un insulto sanguinoso, rinfacciato al rais che non smette di urlare che i ribelli sono topi.
A Gheddafi-cane viene cavato un occhio (mi pare: ma so che per interpretare i disegni dei bambini bisogna avere ancora cuore di bambino, e non è facile). Il nome, GADAFI, è scritto in stentate lettere latine, e dunque c’è l’intenzione di destinarlo a spettatori lontani.
In un altro disegno, che mostra un bel talento di caricaturista, la lana di ferro dei ricci è ancora più svelta e arruffata, e la bocca è spalancata in un comizio urlato con i denti da squalo, e il corpo è quello di un pollo.
In un altro Gheddafi è fucilato: non c’è una mano che impugna il fucile, la giustizia si compie da sé, la traiettoria trapassa il petto e continua, non più del proiettile ma del sangue che cola in una chiazza di sangue: gli occhi sono già chiusi e cuciti a croce, la bocca è di nuovo volta in giù.
Due disegni sono più inquietanti e belli: una faccia espressionista di mostro invasato dagli occhi cerchiati, e un’altra in cui sotto l’armatura di capelli sbuca l’ovale di mummia peruviana cuiforse Munch si ispirò nell’Urlo. (O è questa che vuole ricordare un asino?).
Viene la guerra, e le scuole si chiudono, per mesi interi. Chi ce la fa, tiene i bambini chiusi in casa, sperando di ripararli dalle bombe d’aereo, dalle bombe di tank, dalle bombe a grappolo, dalle bombe travestite da giocattoli. Viene la guerra, e i bambini non disegnano più margherite e mamme, la casa col sole e il fumo che esce dal tetto. Disegnano il rosso del sangue, le esplosioni -grandi stelle di fuoco appuntite- gli elicotteri con la pioggia di proiettili, i carri armati con la nuvola dello sparo, gli aereoplani che sganciano la bomba, i mitra che sputano raffiche di trattini. Disegnano file di persone che sembrano in piedi e invece sono morti e una bara con la bandiera sopra. Disegnano la bandiera, ciascuno quella della propria parte.
Ci sono state mostre rivali di disegni di bambini, a Tripoli, dove si venera il verde, e a Bengasi, dove si disegna il rosso nero e verde con la stella e la mezza luna. A Bengasi, fogli su fogli pieni di bandiere, quella della nuova Libia e accanto quelle della Francia e degli Stati Uniti: più raramente anche quella italiana. Altrettanti indizi delle predilezioni politiche di chi distribuisce fogli e pastelli.
Se si potesse vedere davvero la guerra con gli occhi dei bambini, i grandi che giocano il gioco del potere e della guerra tremerebbero. Ma i grandi usano i bambini nelle loro guerre, tanto più nelle guerre civili. Quella libica è una guerra civile. I bambini sono spinti in prima fila nelle opposte propagande, esposti come le vittime più preziose, indotti a prendere parte.
Del resto, la terra, e l’Africa soprattutto, brulica di bambini-soldato, cui nessuno mai restituirà l’infanzia. Eppure anche tutti questi bambini violati e, a volte, terribilmente violatori, anche quando imparano a distinguere il rumore di un kalashnikov da quello di una raffica antiaerea, di una granata o di un razzo, anche quando sanno smontare e rimontare e tenere in pugno ordigni più grosse di loro, restano misteriosamente bambini.
Leggete, nel servizio di Pietro Del Re qui accanto, la commovente conclusione, con la bambina Sagida che ha fatto un ultimo disegno, per lui questa volta: un fiore.
Penso che i bambini tengano i loro segreti per sé. Tengano per sé la paura e l’orgoglio, lo spavento e l’invidia per i bambini che vedono morire, il desiderio spaventato di essere uccisi e di diventare martiri. Non si può far chiudere gli occhi ai bambini, né fargli voltare la testa dall’altra parte, perché non vedano. Non lo si può fare nemmeno coi bambini fortunati e carezzati delle nostre case, che sentono le notizie e capiscono e stanno zitti. Tocca anche ai nostri bambini,al telegiornale, sulla Libia, sulla Somalia. Non crediate che non le vedano, quelle immagini. E se non ne parlano, se non ci chiedono niente, è bene che ce ne preoccupiamo.
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