by Sergio Segio | 13 Agosto 2011 6:32
Non è una semplice crisi del capitalismo, dovuta a sovrapproduzione, o scatenata dalle società di rating, o dal fatto che gli americani hanno per molto tempo vissuto al di sopra delle loro possibilità o, ancora, dalla mancanza di una Europa politica o di meccanismi che permettono agli Stati di regolare la finanza. Queste, e molte altre ancora, non sono cause ma conseguenze di una logica intrinseca al capitale nella sua ultima, e forse definitiva, mutazione genetica. L’analisi marxiana, da questo punto di vista, ha ancora una validità fondamentale, dato che lo studioso tedesco ha visto nascere il capitalismo nella forma che ha immediatamente preceduto quella nata dopo la caduta del muro di Berlino e le deregulation del periodo Reagan-Thatcher.
Cosa dice, in estrema sintesi, Marx sul capitalismo? Che esso è intrinsecamente degenerativo, che la sua pulsione intima, essenziale e inemendabile, è quella di distruggere le basi materiali della vita. La battaglia senza quartiere, e senza prigionieri, scatenata negli ultimi tre anni dalle sue forze, multinazionali, società finanziarie, banche, con l’appoggio determinante di classi politiche conniventi, ha in natura un parallelo estremamente interessante: il cancro. Questa malattia, spesso mortale, ha una caratteristica che la rende unica, anche da questo il suo valore archetipico, che la pone come emblema del male assoluto: è l’unico morbo che distrugge se stesso facendo morire il corpo che lo ha generato. Ma il parallelo col capitale finanziario è molto più stringente e simbolico: le cellule del corpo umano vivono tutte insieme, le une accanto alle altre, perché il loro corredo genetico è dotato di un fattore che viene definito «inibizione da contatto»; significa semplicemente che una cellula sa che deve fermare il suo sviluppo quando incontra il corpo di un’altra. È il principio che fa vivere il corpo umano nel suo insieme, ed è anche il principio che le cellule tumorali non rispettano più nella loro folle corsa ad espandersi in ogni direzione.
Quando ci si chiede come mai i padroni della finanza sono così «degenerati» nelle loro speculazioni mortali, come mai non esitano, pur di guadagnare qualche altro milione di dollari, ad ammazzare altri esseri umani, o ad avvelenare l’intero pianeta è perché, letteralmente, essi non sentono di appartenere alla stessa razza; il liberismo ha rotto da tempo tutti i vincoli della «solidarietà di specie» e di quella biosferica. E allora, dalle rivolte dei ghetti londinesi, alle piazze arabe, dai movimenti altermondialisti ai blogger cinesi, dagli indignati europei ai braccianti clandestini in sciopero, una rete multiforme e difficilmente componibile secondo categorie politiche classiche, tutti hanno chiaro che questa è la posta in gioco, e tutti stanno cercando di dare le loro autonome e originali risposte in questa battaglia globale per esprimere se stessi contro un sistema che nega all’individuo il valore della propria esistenza. Il caleidoscopio delle forme di re-esistenza alla globalizzazione non vuole prefigurare nessuna immagine definita e definitoria, quanto mantenere la fase nascente il più a lungo possibile, affinché non si cristallizzi troppo presto in risposte vecchie e dunque utili alla sopravvivenza del sistema. Sul piano dell’azione tradizionale, quello delle formazioni partitiche e dei movimenti, ne consegue che solo ispirandosi a questa contro offensiva radicale si possono ridefinire, anche sul piano politico, gli strumenti fondamentali che permettono la vita, cioè la creazione di nuovi vincoli derivanti dalla visione dei beni comuni, con i conseguenti limiti, lacci e lacciuoli, al capitalismo finanziario, e al capitalismo in genere, al fine dichiarato di riportare l’omeostasi, cioè l’equilibrio vitale, a livello di consentire che tutto e tutti possano vivere nel corpo comune del mondo.
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