by Sergio Segio | 28 Agosto 2011 6:49
Un decennio fa, quando io e alcuni altri parlavamo del declino statunitense, incontravamo nella migliore delle ipotesi un sorriso di sufficienza per la nostra ingenuità . Gli Stati Uniti non erano forse l’unica superpotenza impegnata nei più remoti angoli della terra, capace di averla sempre vinta? Questa era l’opinione condivisa da tutto lo spettro politico.
Oggi quella del declino, del grave declino degli Stati Uniti, è una banalità . La sostengono tutti, tranne alcuni politici statunitensi che temono di essere accusati del problema se ne discutono. Ma la verità è che oggi pressoché tutti sono convinti della realtà del declino. Quello di cui si è discusso molto meno è quali siano state e quali saranno le sue conseguenze mondiali. Il declino ovviamente ha radici economiche, ma la perdita del quasi-monopolio del potere geopolitico un tempo esercitato dagli Usa ha conseguenze politiche di notevole portata un po’ ovunque.
Partiamo da un aneddoto riferito nella Business Section del The New York Times il 7 Agosto. Un consulente finanziario di Atlanta «ha premuto il pulsante antipanico» per due ricchi clienti che gli avevano chiesto di vendere tutte le loro azioni e comprare un fondo comune di investimento un po’ protetto. L’agente ha sostenuto che, in 22 anni di lavoro nel campo non gli era mai capitato di ricevere una simile richiesta. «Un episodio senza precedenti». Il giornale aveva definito la cosa come l’equivalente per Wall Street dell’«opzione nucleare». Andava contro il consiglio santificato di rispettare il piano d’investimento prescelto malgrado le oscillazioni del mercato.
Standard & Poor’s ha declassato il credito degli Stati Uniti da AAA ad AA+, anche questo un fatto «senza precedenti». Ma si tratta di un’azione tutto sommato blanda. L’equivalente agenzia in Cina, Dagong, aveva già declassato il credito americano nel Novembre scorso ad A+, e adesso l’ha ridotto ad A-. L’economista, Oscar Ugarteche, ha dichiarato gli Stati Uniti una «repubblica delle banane». Ha detto che gli Usa «hanno scelto la politica dello struzzo sperando in tal modo di non annichilire le speranze ». E a Lima la settimana scorsa i ministri delle finanze degli stati del Sudamerica si sono riuniti per discutere con urgenza di come isolarsi meglio dagli effetti del declino economico statunitense. Il problema è che è molto difficile per chiunque isolarsi dagli effetti del declino degli Usa. Malgrado la gravità della loro decadenza economica e politica, gli Stati Uniti restano un gigante sulla scena del mondo, e qualunque evento su quella scena ancora produce grosse onde in tutto il resto del pianeta.
Certo il maggior impatto del declino Usa si avverte, e così continuerà ad essere, negli Stati Uniti stessi. Politici e giornalisti parlano apertamente della «disfunzionalità » della situazione politica statunitense. Ma come potrebbe non essere disfunzionale? Il fatto più elementare è che i cittadini degli Usa sono sconcertati dal dato stesso del declino. Non è solo che i cittadini soffrono materialmente per quel declino, e sono spaventati all’idea di dover soffrire ancora di più in futuro. Il fatto è che hanno creduto fermamente che gli Stati Uniti fossero la «nazione eletta» scelta da Dio o dalla storia per essere il modello del mondo. E il presidente Obama continua a ripetere loro che gli Usa sono un paese «tripla-A».
Il problema per Obama e per tutti i politici è che ormai solo pochissimi ancora ci credono. Lo shock per l’orgoglio nazionale e per l’immagine di sé è formidabile, ed è anche improvviso. E il paese sta reagendo malissimo. La popolazione cerca capri espiatori e si scaglia selvaggiamente – e senza troppa intelligenza – contro le parti presunte colpevoli. L’ultima speranza sembra essere quella di dare la colpa a qualcuno, il che permetterebbe di trovare un rimedio cambiando la gente al potere.
In generale, è sulle autorità federali che si punta il dito – il presidente, il Congresso, i due maggiori partiti. È molto forte la tendenza a chiedere più armi a livello individuale e una riduzione dell’impegno militare statunitense fuori del paese. Buttare tutta la colpa su chi sta a Washington porta a una volatilità politica e a lotte intestine ancora più violente. Gli Stati Uniti oggi sono, direi, una delle entità politiche meno stabili del sistema-mondo.
Questo rende le lotte politiche interne disfunzionali e fa degli Stati Uniti un paese incapace di esercitare vero potere nel mondo. Di conseguenza si assiste a una grave caduta di fiducia nei confronti degli Usa e del loro presidente da parte dei paesi stranieri tradizionalmente alleati degli americani e della base politica del presidente in patria. I giornali sono pieni di analisi degli errori di Barack Obama. Chi può dare loro torto? Potrei facilmente elencare decine di decisioni prese da Obama che a mio parere erano erronee, codarde e qualche volta decisamente immorali. Ma mi domando: se avesse preso le decisioni tanto migliori che la sua base ritiene avrebbe dovuto prendere, avrebbe davvero fatto tanta differenza? Il declino degli Usa non è il risultato delle decisioni improvvide del suo presidente, ma delle realtà strutturali del sistema-mondo. Obama può ancora essere l’uomo più potente del mondo, ma nessun presidente degli Stati Uniti è o potrebbe essere potente come quelli di un tempo.
Siamo ormai in un’era di fluttuazioni acute, rapide e costanti – nei tassi di cambio delle valute, in quelli di occupazione, nelle alleanze geopolitiche, nelle definizioni ideologiche della situazione. La rapidità e la portata di quelle fluttuazioni produce l’impossibilità di fare previsioni sul breve periodo. E senza una certa ragionevole stabilità sulle previsioni di breve periodo (tipo tre anni), l’economia-mondo è paralizzata. Tutti dovranno essere più protezionisti e introspettivi. E il tenore di vita scenderà . Non è un bel quadro. E anche se ci sono tantissimi aspetti positivi per molti paesi proprio per via del declino Usa, non è affatto detto che – nei violenti sballottamenti della barca dell’economia mondiale – altri paesi riusciranno davvero a trarre il profitto che sperano di trarre dalla nuova situazione.
È giunta l’ora di dedicarsi ad una ben più sobria analisi sul lungo periodo, di dare giudizi morali più chiari su quello che l’analisi rivela, di una ben più efficace azione politica negli sforzi dei prossimi 20-30 anni per creare un sistema-mondo migliore di quello in cui oggi siamo tutti impantanati.
traduzione di Maria Baiocchi
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