«Dal fatto alla persona: ecco il loro diritto penale»

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 Giuseppe Cascini, segretario dell’Associazione nazionale magistrati e esponente di Magistratura democratica, dal Consiglio d’Europa arriva il monito del Commissario dei diritti umani, Thomas Hammarberg, a limitare l’uso della custodia cautelare. La percentuale di detenuti italiani sottoposti a questa misura è del 43%, molto al di sopra della pur preoccupante media europea del 25%. C’è da parte dei magistrati italiani un abuso di questo strumento?

In primo luogo va tenuto presente che nel nostro sistema la custodia cautelare è tale fino all’ultimo grado di giudizio mentre in quasi tutti gli altri ordinamenti europei l’esecuzione della pena comincia con la condanna di primo grado. Comunque, da noi il numero di detenuti anche in attesa della prima sentenza è molto elevato e sicuramente maggiore che nel resto d’Europa. Sarebbe però semplicistico attribuire l’eccesso solo alle scelte dei magistrati. Deriva invece in primo luogo dalla legge stessa, che spinge il giudice verso un’applicazione rigorosa dei meccanismi cautelari. E, oggettivamente, è anche una conseguenza dell’inefficienza del sistema: più il processo è lungo più tende ad espandersi alla custodia cautelare.
Come dire: l’inefficienza del sistema la paga l’imputato?
Sarebbe inutile negarlo. Ma la sofferenza del sistema penale italiano sta nel paradosso che da un lato si ha un numero di detenuti superiore alla capienza e dall’altro c’è una crisi di inefficienza che comporta l’ineffettività  della sanzione penale per moltissimi comportamenti, con circa 300 mila reati che ogni anno vanno in prescrizione. È un effetto immediato delle politiche criminali del nostro Paese su cui dovremmo riflettere, altrimenti si gira a vuoto. La politica deve preoccuparsi di affrontare le cause dell’eccesso di penalità .
Cause che Md e altre organizzazioni hanno elencato in un documento da trasformare in autunno in una proposta di legge. Il presupposto da cui vi muovete è l’inefficacia del Piano carceri del governo, perché?
Costruire nuove carceri in questo momento è assolutamente inutile. I carceri maggiori sono sovraffollati ma ne abbiamo moltissimi altri che non hanno raggiunto la capienza massima. La crisi del sistema penitenziario è più legata alla carenza di organico di polizia penitenziaria, di educatori, di psicologi, che alla mancanza di posti letto. Dobbiamo invece riflettere sulla composizione della popolazione carceraria per capire che si è passati da un diritto penale del fatto a un diritto penale della persona. Un terzo dei detenuti infatti è recluso per reati legati agli stupefacenti o si tratta di tossicodipendenti con reati contro il patrimonio commessi per esigenze di approvvigionamento, e quasi altrettanti sono gli stranieri accusati di reati minori contro il patrimonio. Andando a guardare le statistiche si vede che il trend ascensionale inarrestabile della popolazione detenuta inizia dal 1990, subito dopo la riforma Jervolino-Vassalli sugli stupefacenti dell’89 e la legge sull’immigrazione del ’92.
Questo trend venne rallentato nel ’93 quando il referendum cancellò le quantità  minime personali riportando una maggiore differenziazione tra consumatore e spacciatore?
Sì, il referendum ha corretto le distorsioni maggiori, altrimenti oggi avremmo 100 mila detenuti anziché 60 mila. Ma l’impostazione repressiva confermata dalla Fini-Giovanardi, con minimo 6 anni di pena per questi reati, è rimasta. È difficile immaginare che una legislazione che dà  come unica risposta al fenomeno stupefacenti la repressione penale non produca carcere. È lapalissiano.
Il documento però individua nove punti fondamentali da affrontare per tornare ad un sistema penale legale. Quali sono gli altri nodi?
Dalla fine degli anni ’90 il legislatore ha compiuto una scelta demagogica sulle politiche securitarie, cominciando una rincorsa emergenziale che prevede il carcere come unica risposta di contrasto ai fenomeni di devianza marginale. Una serie di riforme di carattere processuale più che sostanziale hanno inciso in maniera determinante sul funzionamento dei meccanismi sanzionatori. Il paradosso è che alcune di queste leggi hanno allargato la forbice, come la Cirielli che da un lato accorcia i termini di prescrizione – e quindi è un regalo a tutti coloro che per la prima volta incappano nella legge, come ad esempio gli autori di corruzione, evasione fiscale, truffe comunitarie, ecc. – dall’altro invece dà  un fortissimo giro di vite nei confronti di soggetti recidivi.
E questo determina le famose porte girevoli.
Sì, il carcere si alimenta sempre degli stessi soggetti. Su 60 mila detenuti poche migliaia sono per reati legati alla criminalità  organizzata, qualche decina per terrorismo, pochissimi per il grande spaccio di stupefacenti… Praticamente non abbiamo invece detenuti per corruzione, per bancarotta o per evasione fiscale. Mentre la stragrande maggioranza sono reclusi per furto, rapina, ricettazione o piccolo spaccio. Una certa rilevanza ha perfino il numero di immigrati arrestati per la vendita di prodotti contraffatti che rientra in quelle condotte marginali tipiche dei migranti del tutto prive di una reale offensività  nei confronti della collettività . Questo è il dato. E da dieci anni il legislatore ripropone – con la propaganda ma anche con le leggi – il carcere come unica risposta possibile.
Lei è favorevole alle misure tampone dell’amnistia e dell’indulto?
L’amnistia da sola non serve a niente perché non sarebbe applicata a quelle fattispecie di reato di cui abbiamo parlato che determinano il sovraffollamento. L’indulto invece aiuterebbe a svuotare le carceri, ma per poco tempo. L’amnistia però cancellando i reati anche di chi è libero aggraverebbe l’inefficienza del sistema penale.
Però sfoltendo i processi pendenti aiuterebbe a ripartire da una condizione più «normale», non crede?
Sicuramente sarebbe utile a eliminare l’arretrato degli uffici giudiziari: la follia del 2006 fu di fare l’indulto senza amnistia, col risultato che ancora oggi celebriamo processi per reati coperti da indulto. Però se questi provvedimenti non vengono accompagnati da interventi di riforma del sistema, nel giro di un paio d’anni siamo d’accapo.
Il neo ministro Nitto Palma dice che vanno aumentate le misure alternative. Cosa risponde?
In realtà  dal 2000 in poi c’è stata una stretta alle misure alternative che si sono ridotte a un terzo di prima per una scelta precisa del legislatore che ha inventato lo slogan della «certezza della pena».
Secondo alcuni avvocati di Forum Droghe, sui reati connessi alle sostanze c’è una maggiore rigidità  a concedere misure alternative. È d’accordo?
Intanto c’è da dire che questo tipo di imputati è perlopiù scarsamente assistito perché il sistema della difesa d’ufficio non funziona. Eppoi: ci rendiamo conto che il reato di spaccio di stupefacenti in questo Paese ha la stessa pena dell’omicidio? E che non c’è alcuna differenza tra le sostanze stupefacenti? Quindi il messaggio che viene dal legislatore è un messaggio di rigore elevatissimo. Parliamo poi di soggetti spesso recidivi, portatori dunque del marchio infamante che il legislatore ha deciso di creare. Si può avere una giurisprudenza critica, ma non ci si può stupide se il messaggio passa. Perché tutta la macchina penale – dalla polizia agli investigatori – si orienta su questi diktat.
I Radicali propongono di abolire l’obbligatorietà  dell’azione penale. Lei è d’accordo?
No. Sarebbe un errore perché in un paese come l’Italia dove la politica non brilla per imparzialità , attribuire a qualche organismo la scelta dei reati da perseguire rischierebbe di alterare il principio d’uguaglianza. Se davanti all’enorme massa di notizie di reato si crea una discrezionalità  dell’azione penale, la soluzione non sta nel rendere questo difetto del sistema un meccanismo legale. Dobbiamo invece adeguare le risorse al numero di reati da perseguire e cambiare le politiche criminali.
Come mai la chiusura degli Opg è una delle nove priorità  individuate nel documento delle associazioni?
Il problema degli Ospedali psichiatrici giudiziari è molto serio e ancora una volta dipende dalla legislazione. Il sistema penale applicato ai malati psichici è basato sul Codice Rocco, precedente alla riforma Basaglia, secondo il quale un malato psichico senza alcun accertamento di responsabilità  se viene considerato pericoloso va rinchiuso. La reclusione come risposta alla malattia e non al crimine. E questa è una condizione di illegalità . Gli Opg sono un capitolo diverso della stessa storia: l’incapacità  dello Stato di affrontare un fenomeno di disagio rispondendo con la rimozione dei corpi delle persone. L’approccio culturale è lo stesso: tossicodipendenti, immigrati clandestini, malati psichici, li tolgo dalla circolazione e tranquillizzo così le ansie securitarie. Il paradosso è che siamo tornati all’approccio securitario dopo una serie di riforme illuminate. Ritornando al modello culturale del codice Rocco, siamo passati dallo stato sociale allo stato penale. E, come dicevo prima, da un diritto penale del fatto a un diritto penale della persona.


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