by Sergio Segio | 9 Agosto 2011 6:47
ROMA – Non è la tempesta finanziaria del 2008, ma il rischio che il mondo (a cominciare dalle due superpotenze Usa ed Europa) ricada in recessione, con qualche ombra anche di deflazione, è reale. Se accadrà , la responsabilità sarà ancora una volta dei politici, “colpevoli” di non aver tenuto sotto controllo una finanza ipertrofica tre anni fa e, ora, di non aver assecondato una politica di stimolo alla ripresa, comprimendo consumi e investimenti, in nome dell’austerità .
La sorpresa maggiore di una giornata del tutto inaspettata, come quella di ieri, è che il messaggio paradossale che sembra venire dai mercati è completamente diverso da quello ascoltato nelle ultime settimane: non è stata l’angoscia dei debiti pubblici a scatenare il crollo sincronizzato delle borse. Al suo posto, dietro quella che il grosso degli operatori definisce «un’ondata di panico», c’è – nella definizione degli analisti di Morgan Stanley – una growth scare, la paura della mancata crescita, di una ricaduta nella recessione, che i dati sulla debolezza persistente delle economie occidentali fanno temere.
La crisi del 2008 aveva avuto origine in un sistema finanziario troppo squilibrato ed esposto al rischio. Oggi, sostengono gli analisti di Goldman Sachs, è molto difficile che si ripeta una crisi del credito come quella scatenata dal crollo di Lehman Brothers. Almeno negli Usa, il sistema bancario è più solido: c’è più liquidità nelle casse delle banche, riserve più alte, rischi più contenuti e minore affidamento su fondi a breve termine per finanziare investimenti a lunga scadenza. Anche in queste condizioni, era scontato che la storica decisione di Standard & Poor’s di declassare il debito pubblico americano avrebbe avuto effetti dirompenti, rimettendo in discussione tutta l’impalcatura di pagamenti, pegni e garanzie, di cui il dollaro e i titoli del debito americano sono, da sempre, l’architrave. Quello che è avvenuto nelle Borse di tutto il mondo, ieri, è stata, però, una fuga di massa dagli investimenti a rischio (come quelli in azioni) verso i tradizionali rifugi sicuri: l’oro, il franco svizzero e, a sorpresa, i titoli del debito pubblico americani, appena definiti, da Standard&Poor’s, rischiosi. Secondo il premio Nobel Paul Krugman, la corsa all’acquisto dei Bot Usa è un’aperta sconfessione della decisione dell’agenzia di rating. I prezzi dei titoli sono saliti al punto che i rendimenti (che si muovono in senso inverso) sono scesi a minimi storici: 2,41 per cento per i decennali, 1,08 per cento per i quinquennali, solo 0,22 per cento per quelli a due anni.
Dietro questa fuga dalle borse, in altre parole dagli investimenti in imprese e nell’economia reale c’è, secondo molti commentatori, la convinzione che l’America si stia avvitando in una nuova recessione. Puntano in questa direzione i dati più recenti sull’industria manifatturiera, sulla fiducia dei consumatori, le previsioni (l’ultima, del Conference Board, è di ieri) sul ritmo asfittico di assunzioni nel mercato del lavoro. Il recente accordo sul debito, con i suoi drastici tagli di spesa, avrà un effetto depressivo, togliendo risorse all’economia e, dunque, facendo rallentare le entrate fiscali, aggravando, così, il problema del debito. Ma, fra i dati, fa capolino anche lo spettro di un male raro, ma devastante: la deflazione, ovvero la contrazione dei prezzi dovuta alla mancata crescita economica. I segnali ci sono. Le aziende americane sono floride, hanno più soldi che debiti, ma non investono. La Bank of New York, una delle più grandi negli Stati Uniti, ha cominciato ad applicare tassi negativi per i depositi sopra i 50 milioni di dollari: in altre parole, fa pagare per tenere i soldi in banca. Anche tassi così bassi come lo 0,22 per cento sui titoli pubblici a due anni, in realtà , preoccupano. Fanno temere quella che gli economisti chiamano «trappola della liquidità », cioè una situazione in cui i tassi sono così bassi, che la banca centrale non ha più margini per abbassarli ulteriormente e stimolare così l’economia.
Una recessione americana avrebbe ripercussioni pesanti in Europa, dove, peraltro, la situazione è anche più fragile e complicata. Il sistema bancario, largamente esposto ai debiti pubblici nazionali, appare meno solido di quello americano. E il continente è diviso fra paesi con economie ancora vivaci, come la Germania, e paesi sull’orlo della recessione e del ristagno, come Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia. L’austerità imposta a questi paesi, con il rincaro delle tasse e il taglio delle spese pubbliche, per tamponare il tracollo del debito rischia di prolungare la fase di asfissia delle rispettive economie, allontanando la ripresa e, alla lunga, aggravando la crisi del debito pubblico: se il Pil non aumenta, il suo rapporto con il debito peggiora. L’aggiungersi di un’onda recessiva che, dagli Stati Uniti, si propagasse nel mondo avrebbe un effetto devastante, in particolare in Italia. Già costretta ad un ritmo di sviluppo inferiore all’1 per cento, l’Italia vedrebbe fermarsi il suo volano tradizionale di sviluppo e, al momento, l’unico esistente: le esportazioni. Proiettando nuovamente sul sistema produttivo, a due anni di distanza dall’ultima caduta, l’ombra della crisi, della cassa integrazione, dei licenziamenti, dei fallimenti.
La growth scare ci tocca, insomma, da vicino. Nelle prossime settimane, se continueranno a cavalcare l’ombra della recessione, i mercati potrebbero individuare questo nuovo elemento di debolezza e ripartire all’attacco del debito pubblico italiano. Ieri, l’annunciato intervento della Banca centrale europea sui mercati, ad acquistare Bot italiani e Bonos spagnoli, è riuscito a fermare la febbre e a far ridiscendere il differenziale di rendimento con i Bund tedeschi. Ma la situazione resta in bilico e i mercati potrebbero chiedersi quante munizioni la Bce è disposta a sparare per l’Italia e la Spagna, superando i malumori, ad esempio, dei tedeschi. Per tamponare le crisi greca, irlandese e portoghese, la Bce è arrivata a detenere fino al 20 per cento del debito pubblico complessivo dei tre paesi. Totale, 74 miliardi di euro. Un intervento analogo, per Italia e Spagna, sarebbe di tutt’altro ordine di grandezza. Occorrerebbero 320 miliardi di euro per l’Italia e 115 per la Spagna.
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