by Sergio Segio | 20 Agosto 2011 8:17
LA POLITICA europea si trova dinanzi a una svolta importante come quella dell’Ostpolitik tedesca dell’inizio degli anni Settanta.
La parola d’ordine di allora – “Cambiamento tramite il riavvicinamento” – oggi potrebbe suonare così: “Più giustizia con più Europa”.
In entrambi i casi si tratta del superamento di una frattura: allora tra l’Est e l’Ovest, oggi tra Nord e Sud. L’Europa è una comunità di destino, ripetono instancabilmente i politici. Lo è fin dalla sua fondazione. L’Unione Europea è un’idea sorta dalla devastazione fisica e morale successiva alla Seconda guerra mondiale. L’Ostpolitik era l’idea di attenuare la Guerra Fredda e di perforare la cortina di ferro.
Diversamente dagli Stati e dagli imperi precedenti, che celebravano la loro origine nei miti e nelle vittorie eroiche, l’Unione Europea è un’istituzione governativa transnazionale, generata dall’agonia della disfatta e dall’orrore dell’Olocausto. Ma che cosa significa oggi la “comunità di destino europea” come nuova esperienza generazionale, quando non sono più in questione la pace e la guerra? È la minaccia esistenziale prodotta dalla crisi della finanza e dell’euro a rendere gli europei consapevoli del fatto che non vivono in Germania, in Italia o in Francia, ma in Europa. La gioventù europea sperimenta per la prima volta il suo “destino europeo”: più istruita che mai, è frustrata nelle sue aspettative dalla stagnazione del mercato del lavoro provocata dalla bancarotta di Stato e dalla crisi economica incombenti. Un quinto della popolazione europea sotto i 25 anni è disoccupato.
In tutte le proteste giovanili dove il precariato intellettuale ha innalzato i suoi accampamenti e ha fatto sentire la sua voce, risuonano le rivendicazioni di giustizia sociale, portate avanti in Spagna, in Portogallo, ma anche in Tunisia, Egitto e Israele (diversamente che in Gran Bretagna) in modo non-violento e nondimeno potente. L’Europa e la sua gioventù uniscono la loro rabbia nei confronti di una politica che salva le banche con somme di denaro superiori a qualsiasi capacità di immaginazione, ma in questo modo mette in gioco il loro destino. Se la speranza della gioventù europea viene sacrificata alla crisi dell’euro, quale futuro rimane a un’Europa che diventa sempre più vecchia?
In ogni caso, la crisi finanziaria un effetto l’ha avuto: tutti (anche gli esperti e i politici) sono stati catapultati in un mondo che nessuno più capisce. Per quanto riguarda le reazioni politiche, si possono contrapporre due scenari estremi: uno scenario hegeliano, nel quale, con le minacce prodotte dal capitalismo del rischio mondiale, la “astuzia della ragione” ottiene un’opportunità storica. L’imperativo cosmopolitico è questo: cooperare o fallire, vincere assieme o perdere da soli.
Nello stesso tempo, però, l’incontrollabilità delle crisi finanziarie (e del mutamento climatico e dei movimenti migratori) dischiude anche uno scenario alla Carl Schmitt, un gioco di strategia del potere che, con la normalizzazione dello stato d’eccezione planetario, spalanca le porte ad una politica etnica e nazionalistica. Che si realizzi l’uno o l’altro modello, comunque non si potrà sfuggire alla “comunità di destino”, poiché il capitalismo del rischio mondiale, qualsiasi cosa facciamo, crea nuove fratture e nuovi vincoli esistenziali, al di là delle frontiere nazionali, etniche, religiose e politiche.
Con la crisi dell’euro e l’ombrello protettivo per i Paesi del Sud-Europa si è sviluppata una logica conflittuale di tipo schmittiano tra Paesi creditori e Paesi debitori. I Paesi creditori sono costretti ad attuare al proprio interno programmi di risparmio e per questo impongono nei Paesi debitori dolorosi giri di vite politici. Invece, i Paesi debitori si vedono sottoposti a un diktat dell’Ue che lede la loro indipendenza e dignità nazionale. Entrambe le cose fomentano l’odio per l’Europa in Europa, dal momento che l’Europa appare a tutti un mucchio di pretese.
A ciò si aggiunge la percezione di una minaccia dall’esterno. I critici dell’Islam, accusato di strumentalizzare i valori occidentali della libertà , sono riusciti a collegare la xenofobia e l’illuminismo. Di colpo, addirittura, è diventato possibile essere ostili nel nome dell’illuminismo alla penetrazione di certi immigrati. Così in Europa si sovrappongono e si rafforzano a vicenda tre processi autodistruttivi: xenofobia, islamofobia ed europafobia.
Molti, se pensano alla politica, preconizzano la fine della politica. Ma come si può essere così ciechi! Su piccola come su grande scala, a livello della politica nazionale, europea, ma soprattutto mondiale, combattono Hegel, sempre fedele alla ragione, e Schmitt, che vede nemici dappertutto.
Per quanto riguarda l’eterna crisi chiamata Europa, in questo scontro sui modelli del futuro sono all’ordine del giorno due questioni: fino a che punto si spingerà la rivolta dei giovani ribelli nel creare effettiva solidarietà al di là delle frontiere nazionali? E la paura di rimanere tagliati fuori, quanto può favorire un’esperienza generazionale europea e nuove iniziative politiche di respiro europeo? E quale posizione assumeranno i lavoratori, i sindacati, i ceti medi della società europea? Quale grande partito, ad esempio in Germania, avrà il coraggio di spiegare ai cittadini quanto è importante per loro l’Europa?
Angela Merkel “hegelianeggia”, preferisce le vie traverse della ragione. Per esprimersi con una metafora tratta dalla danza: due passi indietro, uno a lato, poi il numero da circo della fulminea capriola ammortizzata da un passetto in avanti: così saltella, zoppica, barcolla la coalizione governativa berlinese. Secondo una musica che né i tedeschi, né gli altri europei riescono a sentire e a comprendere. Infatti, mentre ancora Helmuth Kohl metteva in guardia da un’Europa tedesca e auspicava una Germania europea, la Merkel non fa che replicare un euro-nazionalismo tedesco, secondo cui l’Europa può guarire prendendo a modello gli orientamenti di fondo e la politica economica del governo tedesco.
Ma quella che nella Germania divisa degli anni Settanta fu l’Ostpolitik, oggi, di fronte alla crisi finanziaria della politica europea, dovrebbe essere una politica di unificazione al di là dei confini. Perché l’unificazione con la Germania orientale, che ha comportato costi infiniti, è stata così naturale e perché, invece, l’integrazione economica dei Paesi debitori, come la Grecia e il Portogallo, è così decisamente rifiutata? Non si tratta soltanto di pagare il conto. Si tratta, piuttosto, di ripensare e riprogettare il futuro dell’Europa e la sua posizione nel mondo. L’introduzione degli euro-bond non sarebbe un tradimento degli interessi tedeschi. La strada dell’unione solidale corrisponde, in modo analogo al riconoscimento del confine Oder-Neisse, ai benintesi interessi europei e tedeschi. Perché l’Europa non dovrebbe introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie che non farebbe davvero male a nessuno, nemmeno alle banche, ma farebbe bene a tutti i Paesi membri, aprendo spazi d’azione finanziari a un’Europa sociale ed ecologica, in grado di promettere sicurezza ai lavoratori, e quindi capace di prendere sul serio le esigenze più sentite dai giovani europei?
Più giustizia con più Europa – in questa parola d’ordine è racchiuso anche l’appello a una solidarietà transnazionale: “Europei, indignatevi!”. A suo tempo il discorso dell’avvicinamento al blocco comunista era stato demonizzato da molti come tradimento della patria; analogamente, oggi l’auspicio di “più Europa” è uno schiaffo in faccia all’orgoglio nazionalistico.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
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