L’incubo del nucleare indiano sull’ultimo paradiso marino

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NUOVA DELHI. Il luogo dello scontro più duro tra l’India della natura e quella del progresso capitalista intrapreso da pochi anni si trova in un tratto di Paradiso marino nel Sud del Maharastra, qualche centinaio di chilometri sotto Mumbai. È stato scelto, ben prima del disastro di Fukushima, dal governo indiano per costruirvi la più grande serie di reattori atomici del mondo, sei impianti da 1650 megawatt l’uno, 1500 MW in più di quelli prodotti dalla centrale record di Kashiwkazi Kariwa in Giappone.
La terra requisita per far posto all’impianto di Jaitapur copre un’area di quasi mille ettari lungo una delle coste più incantevoli del Konkan, e nel solo villaggio di Sakhri Nate – uno dei cinque che dovranno sloggiare dal distretto di Ratnagiri – si pescano 40mila tonnellate di pesce l’anno e cresce uno speciale mango venduto anche all’estero chiamato Alphonso, in onore del portoghese de Albuquerque che ne importò il seme cinque secoli fa.
Quando quest’anno esplose la centrale giapponese, anch’essa sul mare, a migliaia si raccolsero a Nate per chiedere la sospensione del progetto, che comprende un porto di acque profonde e lo scarico nell’Oceano dei residui liquidi ad alta temperatura, proibitivi per la vita di ogni specie di pesce e flora. Quel giorno di aprile c’erano donne e bambini che gridavano anu urja nako (no all’energia nucleare), picchiate dai poliziotti coi bastoni, mentre gli uomini scappavano dalle cariche e dai colpi degli agenti sparati ad altezza d’uomo nel mucchio. I feriti furono decine, ma uno dei dimostranti, un pescatore musulmano di trent’anni di nome Tabrez, venne trascinato via dal gruppo e ucciso a sangue freddo con un colpo di pistola, racconteranno gran parte dei testimoni.
Per anni prima della tragedia giapponese – almeno dal 2005, quando fu approvato il sito per i primi due dei 6 reattori oggi in cantiere – decine di migliaia di contadini, pescatori come Tabrez, allevatori, hanno protestato contro il progetto, formando lunghe catene umane, anche durante la visita del presidente francese Sarkozy, giunto nel ruolo di grand commis della principale industria che costruirà  Jaitapur, la Areva. Gli stessi amministratori dei “panchayat”, i membri eletti dei comitati di villaggio, si sono dimessi in massa e molti abitanti non hanno mandato a scuola i figli perché gli insegnanti li educavano ai pregi del nucleare «pulito», un’eresia alle loro orecchie.
Se si escludono le centrali a carbone già  esistenti, Konkan conserva un paradiso di foreste di mangrovie, alberi di frutta, mari pescosi lungo un tratto di costa ricoperta di boschi e lagune, guadagnandosi il decimo posto tra i primordiali ambienti di biodiversità  del Pianeta. Inoltre tutti sanno che l’intera regione è classificata al grado 4 su 5 nella scala di rischio sismico, e a nulla sono valse le rassicurazioni delle varie agenzie atomiche nazionali. Più del 95 per cento dei piccoli proprietari ai quali è stata confiscata la terra hanno rifiutato la magra compensazione offerta.
I primi a scendere in lotta furono gli abitanti dei Madban, le foreste di palme, poi li seguirono tutti quelli che abitano dentro e attorno i mille ettari di terreno espropriato, dove negli ultimi vent’anni si sono verificati 92 terremoti, uno oltre il grado 6. A supporto delle loro convinzioni anti-nucleari già  radicate, hanno trovato gruppi esperti in grado di contestare, dati alla mano, le garanzie di sicurezza del nuovo impianto, di una generazione mai sperimentata al mondo, i Reattori Pressurizzati Europei, un’esclusiva Areva. «È già  il più grande fiasco annunciato nella storia del nucleare in India», ci assicura senza mezzi termini Praful Bidwai, giornalista investigativo autore di scoop e libri sugli scandali dell’industria atomica nazionale, associata soprattutto a società  americane e russe.
«Non solo questo tipo di impianto pressurizzato non è mai stato sperimentato – dice Bidwai – , ma il primo budget è già  aumentato del 96 per cento, oltre nove miliardi di dollari. L’amministratrice dell’Areva è stata recentemente licenziata dal governo francese per una serie di fallimenti commerciali e la tedesca Siemens è uscita dal consorzio dopo aver capito l’impraticabilità  del progetto. Per questo non credo che la centrale avrà  mai vita facile, e con essa tutte le altre programmate in sei diversi punti delle nostre coste, tutte potenziali Fukushima in un Paese dove non esiste nemmeno l’abnegazione e la conoscenza tecnica dei giapponesi». Bidwai racconta dell’incidente di otto anni fa in uno dei reattori di Kalpakkam, a sud di Chennai, lungo la costa orientale, già  colpita dallo tsunami del 2004. «Il fuoco si sviluppò nella stanza delle turbine con diverse esplosioni – ricorda – ma invece di controllare se i reattori erano in salvo, i dipendenti se la diedero a gambe». Parecchi rimasero comunque esposti seriamente alle radiazioni e la gravità  dell’incidente fu ammessa solo parecchi mesi più tardi.
Ma nonostante i fallimenti e i ritardi costanti in gran parte dei progetti dell’industria atomica a scopo civile (i dati sulle installazioni per armi nucleari sono segreti), l’India non sembra desistere. «Il paradosso di questa disordinata corsa al nucleare – spiega Saumyl Dutta, ricercatore del Dipartimento di Scienze del Ministero per la Scienza e Tecnologia – è che l’India dipende per meno del 3 per cento dalle centrali atomiche, ma può potenzialmente ottenere 1500 milioni di Megawatt dai soli impianti a energia solare, collocandoli nel deserto del Thar».


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