La transizione senza pace di Ouattara

by Sergio Segio | 13 Agosto 2011 6:53

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 ABIDJAN.Il mondo ha osservato trepidante i quattro mesi di crisi post-elettorale ivoriana: lo scontro tra Commissione Elettorale Indipendente (CEI) e Corte Costituzionale, il rifiuto del presidente uscente Laurent Gbagbo di ammettere la sua sconfitta alle urne, il braccio di ferro tra Gbagbo e la comunità  internazionale. All’inizio di aprile, le immagini di Abidjan teatro di combattimenti tra le Forze Repubblicane della Costa d’Avorio (Frci) fedeli al nuovo presidente Alassane Dramane Ouattara e i corpi speciali dell’esercito lealista hanno fatto il giro del mondo. L’intervento militare condotto dall’Operazione delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio (Onuci) e dalla Francia, che ha posto fine alla guerra, ma allo stesso tempo favorito la vittoria di Ouattara, ha fatto colare molto inchiostro, dividendo l’opinione pubblica, soprattutto africana, tra pro e contro.

Eppure, da quel fatale 11 aprile in cui Laurent Gbagbo è uscito dal suo bunker bombardato dall’esercito francese per arrendersi ed è apparso sugli schermi di mezzo mondo in manette tra i militari delle Frci, il sipario sembra calato sulla Costa d’Avorio. Ma le difficoltà  della Costa d’Avorio non sono iniziate nel 2010. Il paese vive in un’atmosfera di crisi permanente almeno dal 2002, quando i ribelli delle cosiddette Forze Nuove (Fn) hanno preso il controllo del nord del paese, dando inizio a una divisione della Costa d’Avorio durata quasi dieci anni. È quindi difficile pensare che basti la semplice uscita di scena di Gbagbo, oggi in prigione nel nord del paese, a porre fine ai problemi del paese.
Un ritorno alla normalità ?
«La disciplina. Il lavoro». Così proclamavano i manifesti di Alassane Dramane Ouattara, detto Ado dai suoi simpatizzanti, durante la campagna elettorale. L’ex funzionario del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che si vantava di essere sempre in ufficio alle sette di mattina all’epoca in cui era Primo Ministro, ha fatto del rigore la nuova parola d’ordine del nuovo regime. Il 9 agosto i ministri sono stati obbligati a firmare una Carta dell’Etica che enumera i dieci principi – a partire dal «senso dello stato e l’amore della patria» – ai quali l’azione del governo dovrà  ispirarsi. Che il paese abbia bisogno di integrità , dopo anni di caos politico, di corruzione, di promozioni distribuite sulla base della lealtà  politica e all’identità  etnica piuttosto che del merito, è fuori discussione. Resta da vedere se l’eteroclita coalizione che sostiene Ado, composta dal suo partito, il Ressemblement des Républicains (Rdr), ma anche dagli ex ribelli delle Fn – compresi i comandanti di zona, i signori della guerra che hanno retto per anni il nord del paese – e dai baroni del Pdci, l’antico partito unico, seguirà  le parole d’ordine.
Se si guarda alla superficie, la Costa d’Avorio sembra incamminata sulla buona strada. Per la prima volta da quando nel 2002 la ribellione delle Fn si era impossessata della metà  nord del paese, il paese è riunificato. A cinque mesi dall’arresto di Gbagbo, dopo strascichi di combattimenti che si sono prolungati fino a maggio tra le Frci, gli ex partigiani di Gbagbo e altri gruppi armati emersi durante la crisi post-elettorale che avevano rifiutato di rendere le armi, una relativa sicurezza sembra essere stata ristabilita ad Abidjan.
I check point della polizia, famigerati nell’era Gbagbo per essere soprattutto un’impresa di racket generalizzato, sono stati smantellati in tutta Abidjan. Ouattara ha lanciato l’operazione «paese pulito», volta a ridare ad Abidjan un volto di metropoli vivibile, liberandola dai rifiuti e dall’edilizia precaria e disordinata degli ultimi anni. La campagna ha incluso azioni spettacolari, quale la demolizione della celebre Rue Princesse, una strada del quartiere popolare Youpougon famosa in tutta la Costa d’Avorio – e non solo – per i suoi locali notturni e la sua musica – ma anche ricettacolo di costruzioni abusive, prostituzione e droga. La decisione di radere al suolo questo luogo simbolico della vita notturna abidjanese dopo un preavviso di poche ore è significativa dell’immagine che il nuovo regime vuole dare di sé stesso: disposto anche a compiere azioni dolorose nella sua crociata legalista e moralizzante.
Sotto la facciata però, una serie di questioni fondamentali rimangono in sospeso. Il principale è quello della riunificazione dell’esercito. Le Frci restano più che altro una versione sotto nuovo nome delle vecchie Fn e sono frammentate tra vari gruppi che rispondono più ai singoli comandanti di zona, i signori della guerra che hanno controllato il nord negli anni della divisione del paese, che a una catena di comando precisa. Le vecchie Forze di Sicurezza e di Difesa (Fds) cominciano a ritornare alle caserme con circospezione, ma la prospettiva di dover dividere il campo con ex ribelli che non sempre hanno ricevuto una formazione militare non li entusiasma. Ouattara deve ricostruire un esercito nazionale allontanando i vecchi capi delle Fn responsabili di violenze e saccheggi ma allo stesso tempo evitando che questi si trasformino in una minaccia per il suo regime. L’atteggiamento di Guillaume Soro – ex capo politico delle Fn che Ouattara ha riconfermato come primo ministro – sarà  da questo punto di vista cruciale.
Il «presidente dell’estero»?
Ouattara, che ha vinto le elezioni alla testa di una coalizione che si definisce houphouettista, cerca di giocare sulla nostalgia degli ivoriani per l'”età  dell’oro” di Félix Houphouà«t-Boigny, il compianto primo presidente del paese. In controtendenza per la sua epoca, Houphouà«t esprimeva la volontà  di fare della Costa d’Avorio un prospero paese capitalista e aveva dato alla politica estera del suo paese un’impronta marcatamente pro-occidentale e pro-francese. Dopo gli anni di Gbagbo, caratterizzati da una retorica nazionalista ed anticolonialista, Ouattara ha pienamente recuperato il rapporto con la Francia, l’ex potenza coloniale il cui intervento è stato determinante per il suo insediamento al potere. L’ex funzionario dell’Fmi è stato in passato criticato per la sua tendenza a mostrarsi più vicino alle potenze occidentali e alle istituzioni finanziarie internazionali che al «paese profondo». I suoi primi gesti danno in effetti una qualche giustificazione all’etichetta spregiativa di «candidato dell’estero» appiccicatagli all’epoca dal contendente Gbagbo. La love story con la Francia ha visto il suo culmine il 21 maggio, durante la cerimonia ufficiale dell’investitura del nuovo presidente, quando Ouattara ha rivolto un caloroso ringraziamento a Nicolas Sarkozy, unico capo di stato non africano presente.
Se Ouattara può ostentare oggi la sua – per alcuni indigesta – francofilia, è però anche a causa dell’incapacità  di Gbagbo di dare un contenuto reale al roboante slogan della «seconda indipendenza». Grande propagandista, ma nazionalista dalle credenziali non altrettanto solide, Gbagbo ha posto negli anni della sua presidenza interrogativi importanti sul rapporto quasi simbiotico della Costa d’Avorio con la Francia, ma è stato incapace di dare risposte convincenti. Negli anni di Gbagbo il posto della Francia nell’economia ivoriana non è arretrato di un centimetro: gli scambi tra Francia e Costa d’Avorio hanno addirittura conosciuto un boom nel 2010. Peggio ancora, Gbagbo ha concesso nuovi contratti miliardari in condizioni tutt’altro che trasparenti a cacicchi del business francese in Africa, come Vincent Bolloré, mentre la presidenza ivoriana accoglieva un via vai di «stregoni bianchi», consiglieri francesi spesso dalle dubbie credenziali.
Il fallimento della «seconda indipendenza» spiega perché oggi la popolazione ivoriana appaia stanca delle grandi parole d’ordine di principio e disposta ad accettare un ritorno sotto tutela francese, se questo può garantire pace e crescita economica.
La riconciliazione ambigua
Durante il suo discorso in occasione dell’anniversario dell’indipendenza, Ouattara ha affermato di voler «tendere la mano ai nostri fratelli e sorelle dell’Fpi e dell’Lmp “. «Il loro posto è con noi», ha aggiunto, invitando i fedeli di Gbagbo rifugiati in Ghana a rientrare in Costa d’Avorio. È in effetti dal suo insediamento al potere che Ouattara moltiplica gli appelli alla «riconciliazione». La sua retorica però contrasta con la natura della situazione attuale: la Costa d’Avorio ha ritrovato un minimo di stabilità  non in seguito a un accordo negoziato tra due belligeranti, ma grazie alla schiacciante vittoria militare e politica di una parte sull’altra, con tutto quello che questo comporta.
Un buon numero di dignitari del vecchio regime – tra cui la first lady Simon Gbagbo, l’ex presidente dell’Fpi Pascal Affi N’guessan e il ministro degli esteri del governo leale a Gbagbo Alcide Djédjé – sono agli arresti in varie località  del nord del paese. Il nuovo regime ha chiesto alla Corte Penale Internazionale di indagare sui crimini contro l’umanità  e i crimini di guerra commessi da entrambe le parti durante la crisi post-elettorale. Ma si è riservato la facoltà  di aprire delle inchieste interne per crimini economici e attentato alla sicurezza dello stato. L’11 agosto sono stati così formulati atti di accusa formali contro tutti gli arrestati, incluso Michel Gbagbo, figlio dell’ex presidente. Una decisione che sembra annunciare una «giustizia dei vincitori», considerato che negli ultimi anni la corruzione non è stata certo monopolio dell’Fpi e che gli ex ribelli delle Fn avevano a loro tempo beneficiato di un’amnistia per aver preso le armi contro il regime in carica. Tra vendette sommarie e intimidazioni, per i fedeli di Gbagbo è diventato difficile nel nuovo clima condurre attività  politiche o anche solo portare in pubblico segni distintivi del loro partito.
Dopo l’arresto di Gbagbo, Ouattara ha frettolosamente annunciato la nomina di una Commissione Dialogo, Verità  e Riconciliazione, che ha visto la luce il 13 maggio scorso sotto la leadership dell’ex Primo Ministro Charles Konan Banny. Ma la poca chiarezza intorno alla missione della Commissione e il ritardo nell’adozione delle disposizioni legali necessarie al suo funzionamento hanno fatto apparire la Commissione più un «parcheggio» per l’ex primo ministro che un vero strumento di riconciliazione nazionale.
Privato delle sue teste, l’Fpi, che nell’era Gbagbo ha in gran parte dilapidato la sua gloriosa eredità  di protagonista delle rivendicazioni democratiche negli anni ’90, è al suo minimo storico. Ma l’ex partito al potere non può biasimare soltanto la repressione condotta dal nuovo regime per la sua disorganizzazione e indebolimento. Dall’ascesa al potere di Ouattara, gli esponenti del vecchio regime hanno oscillato tra la tentazione del trasformismo e un revanscismo rancoroso e poco realista. Proprio questi atteggiamenti hanno condotto il presidente dell’Assemblea Nazionale Mamadou Koulibaly, presidente ad interim dell’Fpi dalla caduta di Gbagbo fino allo scorso luglio, a lasciare il partito per creare una sua formazione politica. Fautore di un Fpi capace di assumere pienamente il suo ruolo di forza di opposizione nell’ambito della dialettica democratica, Koulibaly ha gettato la spugna dopo aver visto i suoi appelli all’autocritica e al rinnovamento disconosciuti dai vecchi compagni.
Con un Fpi ridotto all’insignificanza e un’alleanza tra i due altri due grandi partiti, l’Rdr e il Pdci, che sembra tenere, la Costa d’Avorio rischia di diventare un regime a partito unico con una tenue vernice di democrazia. Questo è preoccupante, soprattutto se si considera che l’instabilità  politica e gli scoppi periodici di violenza che il paese conosce dalla morte di Houphouà«t-Boigny nel 1993 sono dovuti in buona parte all’incapacità  di istituzionalizzare una vera dialettica democratica e al persistere di una mentalità  in cui la politica è vista come un gioco in cui il vincitore prende tutto: quello che uno studioso francese ha chiamato «il cattivo uso della democrazia». Come osserva un sociologo ivoriano che pure ha sostenuto Ouattara, «la comunità  internazionale dice di essere intervenuta in difesa della democrazia, ma ho i miei dubbi che il problema della democrazia sia davvero risolto. Il problema è che abbiamo avuto un cambiamento di regime, non una rivoluzione. Le basi del potere politico sono rimaste sempre le stesse. L’appello agli elettori si fa su basi etniche o comunitarie. Il vincitore occupa tutti i posti di potere e li distribuisce a gente della sua etnia e del suo clan. Chi è all’opposizione non vede la possibilità  concreta di arrivare al potere in maniera legale e pacifica».
La strada per la «nuova Costa d’Avorio» è ancora lunga e accidentata. Il mondo dovrà  attendere per capire se il paese è veramente all’inizio di una nuova era di pace o se è destinato ad oscillare all’infinito tra momenti di stabilità  e scoppi di violenza.

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