La superpotenza colpita al cuore

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La ratifica contabile di una crisi di leadership e di un deterioramento economico dell’America che è sotto gli occhi di tutti da tempo. Quello notificato venerdì notte da Standard &Poor’s è un «downgrading» storico, visto che gli Usa godevano da 70 anni del massimo voto di affidabilità  del loro credito, ma anche ormai atteso (non così presto) dopo il caotico confronto sul debito federale tra la Casa Bianca e un Congresso spaccato.
Negoziato concluso con un compromesso, inghiottito a fatica anche da chi l’ha firmato, che evita la follia di un default degli Stati Uniti per il mancato aumento del limite all’indebitamento del Tesoro, ma fa ben poco per affrontare i problemi che si sono accumulati sotto quel tetto. Ma una decisione contabile che non è più un fulmine a ciel sereno può diventare comunque una svolta epocale sui mercati se, nonostante tutti gli sforzi del Tesoro e della Federal Reserve di disattivare i meccanismi tecnici capaci di innescare una reazione a catena, alla riapertura delle contrattazioni stasera in Asia si diffonderà  un’altra ondata di panico. Ma anche sul piano geopolitico: la decisione di una delle tre agenzie private di rating non può essere paragonata alla fine della convertibilità  del dollaro in oro decretata da Nixon quarant’anni fa, e tuttavia l’importanza dell’evento è ingigantita dalla durissima reazione della Cina.
La nuova superpotenza globale, grande creditore degli Stati Uniti, tratta l’America da drogata di debito («curate la vostra dipendenza, tagliate la gigantesca spesa militare e l’ipertrofico welfare» ) e arriva fino al punto di invocare la creazione di una nuova valuta di riserva mondiale. Chiedendo, nel frattempo, l’introduzione di un controllo internazionale sulla stampa di nuovi dollari da parte della Fed. Su questo Pechino non la spunterà , ma oggi l’impronta cinese sul Terzo Millennio cresce in misura significativa. La vera sorpresa, nella mossa di S&P, sta negli argomenti, più politici che economici, usati per motivare la scelta di strappare dal petto dell’America la medaglia delle tre A.
Una «bocciatura» dalla quale escono sconfitti i tre attori principali sul palcoscenico. In primo luogo il presidente Obama che, pur con la giustificazione di aver dovuto affrontare una crisi senza precedenti con la destra scatenata contro di lui, non ha saputo affrontare per tempo un nodo di cui aveva da tempo piena consapevolezza («avesse attuato nel dicembre scorso il piano della commissione bipartisan Simpson-Bowles da lui stesso nominata, oggi non saremmo a questo punto» ha detto ieri il managing director di Standard &Poor’s, John Chambers). Sconfitti anche i repubblicani che, ostaggio dei Tea Party, hanno esasperato lo scontro politico oltre ogni limite di sicurezza. Condannati -prima ancora che dal downgrading — dagli stessi americani che, nei sondaggi sulla disastrosa gestione politica della questione debito, disapprovano a grande maggioranza (72 contro 21 per cento) la condotta del partito conservatore, mentre su Obama in giudizio è diviso a metà  (47 a 46).
Ne esce male anche S&P, la cui crisi di credibilità  è stata ulteriormente alimentata da un mastodontico errore contabile (una cosetta da duemila miliardi di dollari) che l’agenzia alla fine ha riconosciuto, senza tuttavia cambiare il suo giudizio. Nella parte alta della colonna degli sconfitti anche i Paesi oggi più vulnerabili come l’Italia: rischiano più degli stessi Usa che, con la possibilità  di stampare dollari senza limiti, restano comunque l’approdo più sicuro per gli investitori.
 L’unica speranza è che la nuova emergenza ricrei quell’unità  d’intenti tra i principali Stati che, utilissima nella gestione concertata della crisi del 2008, si è persa man mano per strada quando, finita l’emergenza, ognuno si è sentito libero di tornare al vecchio uso di strattonare la coperta dalla propria parte. Senza rendersi conto che quel tessuto è diventato ormai fragilissimo.


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