La primavera incompiuta

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Al rientro dalla Libia di Gheddafi vado a trovare una famiglia amica. La Tunisia, in cui vive, conosce l’ebbrezza e l’affanno della democrazia incompiuta, ancora da inventare, alla ricerca di un modello costituzionale. Inoltre la fine di una dittatura non implica l’avvento di un miracoloso benessere. Anzi, può accadere il contrario. Infatti l’economia soffre. Nella famiglia amica ne sono coscienti e partecipano all’agitata, appassionante transizione con lo slancio di chi può infine esprimere le proprie idee e agire con la speranza che si realizzino. Tutti consapevoli che non sarà  facile. È evidente il fastidio quando parlo, forse dottoreggiando un po’, delle esperienze storiche europee in fatto di democrazia. Sembra una lezione e lo sguardo di Moncef, a lungo impegnato in una casa editrice mitragliata dalla censura, si distrae, si perde nel limpido mare di La Marsa, il sobborgo residenziale di Tunisi dopo Cartagine e Salambò, in cui abita con i suoi. Ed Essiah, la sorella, sfodera il suo solito intelligente sarcasmo con un’eloquente silenziosa occhiata. Non mi resta che tacere e ascoltare.
Considero quella di Essiah, di Moncef e della moglie Leila la mia seconda famiglia. La prima per elezione. Da decenni ci lega una profonda amicizia, punteggiata per loro da sofferti e interminabili periodi politici. Penso ai tre decenni dopo l’indipendenza (1956), dominati da Bourghiba, un raìs di stampo particolare, che a tratti ragionava come un radicale della Terza Repubblica francese, ma che restava pur sempre un despota; e ai quasi tre decenni, assai più oscuri, di Ben Ali, trasformato dal lungo potere e dalla moglie avida di denaro in un pirata-gangster. In quel più di mezzo secolo di tirannia la grande famiglia tunisina, devota all’indipendenza nazionale e al tempo stesso imbevuta di cultura francese, non ha ceduto un pollice della propria dignità . È rimasta liberale, laica e sprezzante verso il potere corrotto, cioè fedele ai principi dei vecchi defunti: il nonno, celebre avvocato nazionalista che avrebbe potuto recitare Molière e il Codice di Napoleone, come le devote donne di casa il Corano; e il padre, direttore di banca, che in gioventù si batté contro i nazisti come ufficiale (“indigeno”) dell’esercito francese, quando la Tunisia era un “protettorato” di Parigi.
Adesso il puntiglioso razionalismo che ha consentito alla famiglia la sopravvivenza intellettuale nei tempi bui è venato da un’emozione che incute rispetto, e che esenta da interferenze. Moncef è troppo amico e troppo raffinato per dirlo apertamente: ma in definitiva credo di capire quel che pensa.
La democrazia in gestazione in Tunisia è affar loro. Me ne rendo conto, mi accorgo che parlavo da un pulpito al momento non particolarmente attendibile. Settant’anni dopo la fine del fascismo e l’arrivo della democrazia, il mio paese, che Moncef ed Essiah conoscono bene, conta tre (o quattro) mafie, equivalenti a tribù criminali che non riconoscono lo Stato, e da tre lustri vi prevale a singhiozzo un berlusconismo difficilmente proponibile come modello. In quanto alla Francia, con la quale, abitandovi da tanto tempo, mi capita abusivamente di identificarmi, fino a qualche mese fa era devota a Ben Ali, il raìs cacciato dai tunisini a furor di popolo.
La primavera araba non è stata tradita. Ha poco più di sei mesi ed è più che mai viva. Continua. È una rivoluzione profonda e come tutte le rivoluzioni è contrastata, tormentata, conosce momenti di euforia ed altri di smarrimento. I frequenti scioperi, i turisti meno numerosi, gli investimenti stranieri esitanti creano problemi. Ma la Tunisia, etnicamente omogenea ed economicamente dinamica, se la cava meglio del molto più grande e complicato Egitto, l’altro teatro della primavera araba. È azzardato, anzi impossibile, immaginare quale sarà  l’esito finale. Le svolte radicali, le restaurazioni sotto parvenze liberali, gli scontri tra laici e religiosi non sono da escludere. Ma la tendenza prevalente nel fervore rivoluzionario, in due realtà  diverse come la piccola Tunisia e il grande Egitto, è di creare una società  più aperta, pluralista, democratica. Alcune specificità  arabe sono ostacoli che non è semplice aggirare: come creare un quadro istituzionale in cui siano possibili relazioni distese tra lo Stato e l’Islam; come consentire eguali diritti alle minoranze etniche e religiose; come equilibrare i redditi, finora basati spesso sugli abusi e la corruzione; come risanare una burocrazia inefficiente e asservita ai potenti; come rifondare il sistema giudiziario; e fare dell’esercito e della polizia strumenti al servizio di una costituzione democratica ancora da scrivere. E quali rapporti stabilire con i Paesi in cui i raìs o i monarchi continuano ad esercitare poteri assoluti, sia pure contestati. Con la Siria ad esempio, dove il raìs (Assad) resiste massacrando gli oppositori, o con la remota Arabia Saudita, danarosa per il petrolio e influente in quanto custode della Mecca e di Medina. Migliaia di automobili libiche, riconoscibili per la targa d’immatricolazione bianca, percorrono in questi giorni la Tunisia: sono ricchi profughi da Tripoli o da Bengasi, amici o nemici di Gheddafi, che ricordano con la loro presenza ai tunisini che il sanguinoso confronto tra i raìs e la democrazia in Libia è ancora aperto. Là  l’esito della guerra civile resta incerto. Ed è un costante segnale d’allarme.
I miei amici di La Marsa, Moncef e Essiah, esprimono un’élite; ma la Tunisia è comunque uno dei paesi più scolarizzati del mondo arabo; e se recupera i numerosi esperti (intellettuali, economisti, ingegneri, medici) dispersi in Occidente e in Medio Oriente, può disporre di una classe dirigente di qualità . Jalloul Ayed, il ministro delle Finanze ed ex dirigente della Citibank (oltre che musicista), pensa che il Paese potrebbe diventare in meno di dieci anni qualcosa di simile a una Singapore del Mediterraneo. La crescita economica azzerata dai timori suscitati dalla rivoluzione non lo spaventa. Risalirà . Le insurrezioni popolari sollecitano i sogni. La rapidità  con cui è stata spazzata via la dittatura ha acceso le fantasie, spinge a immaginare un futuro forse irrealistico e tuttavia impensabile fino a sei mesi fa.
Per ora la Tunisia continua a conoscere momenti di vivacità , a tratti di collera rivoluzionaria. Moncef, e suo nipote Mehedi, regista cinematografico appena arrivato da Parigi, erano impazienti di raggiungere il centro della capitale per partecipare a una manifestazione contro le intemperanze dei movimenti religiosi. Non bisogna lasciarli fare. Nell’attesa di una costituzione che stabilisca le regole democratiche, i laici si impegnano in un confronto politico teso ad arginare un’eventuale ondata islamica.
Durante le brevi soste a Sfax e a Jerba (andando o ritornando dalla Libia) ho visto quanto siano ancora agitati i rapporti tra la popolazione e la polizia, per decenni al servizio del raìs, e quindi accusata di numerosi delitti, dalla brutale repressione alla tortura. Sei mesi dopo l’insurrezione, che ha cacciato Zine El-Abidine Ben Ali e la moglie Leila Trabelsi (adesso in esilio in Arabia Saudita), la gente non ha più paura di chi indossa divise e imbraccia armi. Ha un certo rispetto per i militari perché l’esercito ha contribuito alla cacciata del rais. La polizia non ha diritto agli stessi riguardi. In una sola notte, a metà  luglio, sono stati assaltati con cocktail Molotov e lanci di pietre sei o sette commissariati.
A loro volta gli agenti di polizia hanno creato un loro sindacato. Non esiste nulla del genere nel mondo arabo. Il nuovo sindacato segna la svolta democratica delle “forze per la sicurezza interna”, e al tempo stesso esige, insieme al diritto di voto finora negato ai poliziotti, migliori condizioni di lavoro. I salari sono bassi, tra 600 e 800 dinari (300-400 euro) al mese per un agente semplice. Un aumento si impone. E poi ci vuole qualche condizionatore in caserma per combattere il caldo; e i servizi igienici, docce e cessi, devono essere ammodernati. Anche queste sono rivendicazioni.
Per evitare vendette personali, gli ufficiali e gli agenti sono stati trasferiti in località  lontane da quelle in cui erano in servizio durante la dittatura. Ma sono ugualmente presi di mira la notte da chi vuole regolare i conti con il concreto simbolo della repressione (che nei giorni caldi della rivolta ha fatto 300 morti). Di giorno capita che gli stessi poliziotti incrocino le braccia per usufruire delle conquiste civili ottenute dall’insurrezione popolare. Scioperavano quando mi trovavo a Sfax. E poi a Jerba. Insomma le espiazioni notturne per la passata azione controrivoluzionaria si alternano alle rivendicazioni diurne avanzate nel nome della rivoluzione oggi in marcia e un tempo repressa. Quelli della Lega dei diritti dell’uomo denunciano tuttavia numerose violenze commesse da poliziotti, in divisa nera e il viso coperto, in diverse località . Compresa la capitale. Le tentazioni controrivoluzionarie, o le semplici azioni di rivalsa, sia pur sporadiche, non si sono dunque spente. Lo straniero non se ne rende conto. Il turista non deve essere disturbato. E non lo è.
Beji Caid Essebsi, primo ministro dal 27 febbraio, è un 84enne che non manca di energia. È stato ministro nei governi del raìs, ma senza mai perdere la dignità . A lui è affidata la transizione, nell’attesa del 23 ottobre, quando sarà  eletta l’Assemblea costituente, alla quale spetterà  di varare entro un anno la “magna charta” della prima vera democrazia tunisina. Il Paese doveva andare alle urne il 24 luglio, ma la data è stata ragionevolmente ritardata per dar tempo ai più di 90 partiti registratisi (formazioni laiche e religiose di varia intensità  islamica) di prepararsi all’appuntamento. La legge elettorale, basata sul sistema proporzionale, sfoltirà  i ranghi e finirà  con l’ammettere soltanto una decina di partiti nell’Assemblea costituente. La futura Costituzione potrebbe essere influenzata da quella francese, un po’ presidenziale e un po’ parlamentare. Ma dopo la lunga esperienza autoritaria il presidenzialismo non dovrebbe troppo prevalere.
Quasi tutti i sondaggi sulle intenzioni di voto mettono in testa Nahda, il principale partito islamico. Il cui prestigio è basato anche sull’incorruttibilità  dei suoi dirigenti, e sulle persecuzioni subite dai suoi affiliati e simpatizzanti durante la dittatura (cinquemila imprigionati nei momenti più duri, e spesso per vent’anni). Il leader di Nahda, il settantenne Rashid Gannouchi, un matematico, ritornato dopo più di vent’anni dall’esilio londinese, si prodiga nel presentare il suo partito come una formazione moderata, tollerante, rispettosa delle regole democratiche, ed anche favorevole ai diritti delle donne, in Tunisia riconosciuti, fin dai tempi di Bourghiba, molto di più che nel resto del mondo arabo. Nahda non si propone di applicare la sharia, la legge coranica, né di proibire l’uso dell’alcol, né di moralizzare il turismo. Come molti islamisti, colti di sorpresa dall’insurrezione popolare in favore delle libertà  fondamentali e ansiosi di adeguarsi, Rashid Gannouchi considera con attenzione la Turchia di Erdogan, un modello politico in cui Islam e democrazia convivono. Nessuna indagine d’opinione attribuisce comunque a Nahda la maggioranza assoluta. Al massimo potrebbe ottenere il 25 per cento. Il sondaggio più recente, a mia conoscenza, cala bruscamente, non va oltre il 14 per cento. Circa tre tunisini su quattro non si dichiarano islamisti e dicono di non avere fiducia nel partito di Rashid Gannouchi. Lo accusano di adottare toni diversi secondo il pubblico. Un movimento, che si definisce Polo democratico modernista, cerca di riunire tutti i partiti laici, incluso l’ex partito comunista (Tajdid), con l’obiettivo di arginare Nahda. E comunque di formare una maggioranza capace di governare senza il grande partito islamico.
***
Il panorama politico e sociale si allarga e diventa opaco, nebbioso, se si sposta lo sguardo sull’Egitto, l’altro teatro della primavera araba. La piccola Tunisia ha trascinato nella rivoluzione, con il suo esempio, il più grande Paese arabo, abitato da una popolazione dieci volte più numerosa, e con un passato remoto tra i più famosi nella storia dell’uomo. Dal 1952, quando gli “ufficiali liberi” cacciarono re Faruk e abolirono la monarchia, i militari controllano la società  egiziana. Ancora oggi sono loro che fissano i tempi e le regole, quindi anche i limiti, della transizione democratica. Il tunisino Habib Bourghiba, il padre della patria, diffidava dei militari e relegò le forze armate in un ruolo secondario. Il successore, Ben Ali, pur essendo un ufficiale di carriera, aveva più l’anima dello sbirro che del soldato. Ma il frustrato esercito tunisino è diventato decisivo quando è esplosa l’insurrezione popolare. Senza il suo sostegno la rivolta non sarebbe sfociata in una rivoluzione. Come senza la decisione dell’esercito egiziano, Hosni Mubarak non sarebbe stato spinto alle dimissioni, vale a dire destituito. A differenza di quelli tunisini, i militari egiziani continuano tuttavia a tenere le redini del potere e non hanno intenzione di cederle. Erano la spina dorsale del regime quando comandava il raìs, che era uno di loro, e adesso, disciplinano il passaggio alla democrazia. Questo fa dire a Wafik Ghitany, esponente del partito Wafd (liberale) che «l’ex regime controlla ancora il Paese». Oppure, con più sarcasmo, si chiede se sia opportuno affidare «alla dittatura il compito di processare se stessa».
Il generale Mahmud Hegazy, membro del Consiglio supremo delle Forze armate, precisa che spetta ai militari distinguere tra le richieste legittime e quelle illegittime della popolazione. E un noto giornalista, Hisham Kassem, aggiunge che almeno per altri dieci anni neppure un presidente eletto democraticamente potrà  sfidare il potere militare. Il generale Mahmud Shahine è più possibilista. Secondo lui le cose cambieranno quando entrerà  in vigore la nuova Costituzione, che l’Assemblea eletta il prossimo autunno dovrà  redigere. Di questo, del ruolo dei militari, si dibatte in particolare al Cairo nell’attesa delle elezioni. Finora, ad eccezione dei suoi membri, nessuno conosce il numero esatto dei componenti del Consiglio supremo delle Forze armate (si dice siano 19), né l’identità  di tutti coloro che ne fanno parte.
La destituzione dei raìs è stato soltanto un passo, sia pure decisivo, verso la democrazia. Se a Tunisi riesce difficile liberare lo Stato da tutte le incrostazioni del vecchio regime, in Egitto l’impresa appare titanica. Dall’8 luglio centinaia di migliaia di egiziani hanno riempito al Cairo piazza Tahrir, sei mesi prima teatro dell’insurrezione popolare. È vero, l’atmosfera era diversa. Gli interventi, sia pur violenti, per disperdere la folla, non avevano l’intensità  di una repressione. Quella presenza popolare su piazza Tahrir era comunque il segno di una vasta insoddisfazione. La tutela militare sul processo democratico crea insofferenza e suscita sospetti. I generali cercano di apparire aperti al dialogo, e si rendono accessibili via Facebook o in riunioni in cui sono ammesse le critiche, ma il loro comportamento assomiglia più a quello dei predicatori che a quello di dirigenti rispettosi dei principi democratici. Insomma, più che dialogare comandano. È un vizio professionale. Quelli di piazza Tahrir esigono i processi dei membri del vecchio regime, corrotti o colpevoli di vari delitti (torture e repressioni), e i generali li concedono, risparmiando però i militari. Con l’eccezione di Mubarak, che è un generale, che dovrebbe essere processato domani. Sempre i militari ripristinano il ministero dell’Informazione, un tempo strumento di censura, ma i giornali non rinunciano alle libertà  di informazione e d’opinione conquistate. Lo spazio delle libertà  è più ampio, si sente che è passata la rivoluzione, anzi che è ancora in corso, a volte sulle piazze, sempre in molti cuori e cervelli. Ma c’è anche incertezza.
Al principale partito religioso, quello dei Fratelli Musulmani, i sondaggi pronosticano un robusto successo elettorale. Ma non superiore al 20 per cento. I loro concorrenti salafiti, militanti dell’ala islamica ultra-puritana, si sono divisi in almeno quattro gruppi. I quali non riservano le critiche più aspre ai partiti laici, ma si accaniscono più volentieri contro il movimento Sufi, rappresentante una tendenza esoterica e tradizionale dell’Islam. La gara su chi è più ortodosso impegna i partiti religiosi. I quali non trascurano i rapporti con i generali. I Fratelli Musulmani, i più organizzati e disciplinati, hanno cacciato dalle loro file i giovani radicali, suscettibili di inquinare la rispettabilità  democratica del partito agli occhi dei militari, che un tempo impiccavano o tenevano nei campi o in prigione, insieme ai comunisti, i membri della confraternita, allora al bando. Oggi i Fratelli Musulmani si fanno in quattro per apparire cittadini esemplari. Ma, come a Tunisi, molti diffidano di loro.


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