La marcia di Aung San Suu Kyi per fermare la maxi diga cinese

by Sergio Segio | 15 Agosto 2011 6:55

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PECHINO — Questa volta non era un viaggio privato. Aung San Suu Kyi in luglio aveva lasciato Rangoon insieme con il figlio ed era risalita fino alle pagode di Pagan senza tenere discorsi: un pellegrinaggio. Ieri invece un convoglio di quasi 40 auto l’ha accompagnata a Bago e Thanatpin, meno di 100 chilometri a nord dell’ex capitale della Birmania. Due biblioteche inaugurate, i sostenitori, i diplomatici occidentali. Nessun incidente, mentre l’ultimo viaggio analogo, nel 2003, si concluse con un’imboscata che fece dei morti, fra i 4 (bilancio ufficiale) e il centinaio (stima della Lega nazionale per la democrazia, Nld, il partito della Premio Nobel). Tutto tranquillo e niente demagogia: sulla democrazia, «non vi voglio dare false speranze…». E anche se la Nld resta fuorilegge, le autorità  stanno ostentando prove di tolleranza e disponibilità , come quando il ministro degli Affari sociali incontra per due volte Aung San Suu Kyi.
Tuttavia in questo precario gioco delle parti è proprio la leader democratica ad alzare la posta e a provare a disturbare le certezze del governo. Suu Kyi ha infatti diffuso un appello perché venga sospeso un progetto sino-birmano per la costruzione di dighe sul fiume Irrawaddy. Il comunicato pone in discussione l’asse formidabile tra gli ex gerarchi militari e Pechino. Sembra ecologia ma è politica, e diplomazia.
Il testo della Signora contesta il dogma dell’alleanza economica e militare con la Cina, pilastro delle strategie della Birmania. Nel febbraio scorso, la Repubblica Popolare ha per la prima volta sorpassato la Thailandia come primo investitore straniero. Dati cinesi per il 2010 parlano di interscambio commerciale a 4,4 miliardi di dollari e di investimenti per 12,3 miliardi di dollari.
Il tono degli 8 capoversi è accorato ma sobrio. «Come buoni vicini, Birmania e Cina hanno una solida tradizione di rispetto reciproco e di amicizia. Crediamo che, tenendo a mente gli interessi dei due Paesi, entrambi i governi dovrebbero voler evitare conseguenze che potrebbero danneggiare esistenze e abitazioni». Aung San Suu Kyi denuncia l’impianto di Myit Sone, la più meridionale di una serie di dighe. La gestione complessiva è della China Power Investment e un’altra società , il China Gezhouba Group, procede ai lavori. Le preoccupazioni riecheggiano quelle delle organizzazioni ambientaliste, come la International Rivers.
Il progetto di Myit Sone, da 3,6 miliardi di dollari, darà  6 mila megawatt e potrebbe sommergere un’area vasta quanto Singapore. La Premio Nobel segnala l’evacuazione forzata di 63 villaggi e 12 mila persone (il sestuplo di quanto ammesso dal governo) e i guasti agli ecosistemi coinvolti, fino al delta, minacciato dall’intrusione di acque salmastre (risaie a rischio). L’Irrawaddy è, parole sue, «l’elemento geografico più significativo del nostro Paese», e tanto basterebbe. Ma in più le dighe sorgeranno nell’area dei kachin, una delle minoranze del puzzle etnico della Birmania. Dagli anni Sessanta le loro pulsioni irredentiste si sono espresse in un braccio armato, il Kia (Kachin Independence Army), oggi 8-10 mila combattenti. Nel ’94 il Kia aveva firmato un cessate il fuoco con le autorità  birmane, in cambio di autonomia, ma le scaramucce tra esercito e guerriglia del Kia sono riprese. Due mesi fa gli scontri intorno ad alcuni siti contestati hanno provocato la fuga di migliaia di civili e il rimpatrio di 215 lavoratori cinesi. L’appello di Aung San Suu Kyi, così, tende una mano ai kachin, lasciando presumere che la Signora stia lanciando alle minoranze calcolati segnali di simpatia e di intesa. La mossa, poi, avviene proprio quando, col nuovo governo civile birmano, il consenso internazionale circa le sanzioni vacilla. Embargo o non embargo, nell’ultimo anno fiscale la Birmania ha ricevuto impegni a investire per 20 miliardi di dollari.

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