La LUNGA MARCIA (OLTRECONFINE) DELLA FINANZA CINESE

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PECHINO — La Cina non basta più a se stessa. Le sue scelte strategiche, lo status di seconda potenza mondiale, le impongono di dare l’assalto al mondo. In termini economici, ovviamente: perché il dogma politico-diplomatico è l’ «ascesa pacifica» formulata dal politologo Zheng Bijian che suona sia come una rassicurazione sia come un’evoluzione della cautela e del basso profilo predicati da Deng Xiaoping quando lanciò «l’apertura e le riforme» . Il risultato è che, oltre agli scambi commerciali, la Cina mette denaro ovunque.
INVESTIMENTI DIRETTI
Dalle telecomunicazioni alle materie prime essenziali per sostenere la crescita, gli investimenti diretti della Repubblica Popolare hanno cominciato a impennarsi nella seconda metà  di questo decennio. Se nel 2007 quelli oltrefrontiera superavano i 26 miliardi di dollari, l’anno dopo erano raddoppiati. Nel 2011 l’impulso ad «andare all’estero» ha ricevuto la definitiva legittimazione politica al nuovo piano quinquennale e il ministero del Commercio ha annunciato che gli investimenti non finanziari del 2010 hanno toccato i 59 miliardi di dollari, indirizzati a 3.125 aziende in 129 Paesi e territori, un +36,3%sul 2009 (in totale gli investimenti diretti non finanziari dalla Cina sono quasi 259 miliardi di dollari). Lo scorso 22 luglio il sito del ministero aggiornava i conti: nella prima metà  del 2011 siamo a un più 34%sull’anno prima, altri 24 miliardi di dollari. «Entro il 2020 aziende cinesi investiranno all’estero tra i mille e i 2 mila miliardi di dollari» secondo un’analisi del Wall Street Journal.
LA STRATEGIA
 Il ruolo dell’Australia tra i destinatari delle acquisizioni e delle partecipazioni cinesi (quasi 3 miliardi di dollari nel 2010) spiega molto. La fame di materie prime e di fonti energetiche ha spinto le grandi compagnie di Stato (Soe) a entrare ovunque nel mondo in aziende minerarie, a rilevare lotti di campi petroliferi. Non sempre le cose vanno bene, come la fallita scalata della Chinalco alla Rio Tinto, ma il trend è questo. Un recente dossier della Us-China Economic &Security Review Commission ammette che «descrivere accuratamente la natura degli investimenti di Pechino all’estero è una sfida» e annota altre linee guida dell’azione di Pechino: l’acquisizione di tecnologia, marchi e know-how; la diversificazione delle operazioni là  dove il mercato interno è saturo; il tentativo di aggirare barriere commerciali e dazi imposti a beni made in China producendoli in loco.
GLI ATTORI
Aziende private, colossi pubblici, il fondo sovrano, banche. Gli attori dell’espansione cinese sono accomunati dalla disponibilità  di capitali e dall’appoggio del partito comunista. La Cic, acronimo per China Investment Corporation, è il fondo sovrano. Creata 4 anni fa, è incappata nell’infortunio di investire quasi subito in Blackstone e Morgan Stanley: le perdite della crisi del 2008 suscitarono critiche pubbliche. Si stima che oggi il fondo disponga di 300 miliardi di dollari e, a Davos, Barack Obama ha espresso interesse alla partecipazione della Cic in progetti infrastrutturali negli Usa.
IN AMERICA
In principio fu Lenovo. Che nel 2005 acquisì la divisione pc della Ibm. Le stime degli investimenti diretti negli Usa convergono sui 5 miliardi di dollari (nel 2010). Ovvero più 150%sul 2009, arrivando — secondo gli analisti del Rhodium Group— a 12 miliardi di dollari totali. Aziende cinesi negli Usa danno lavoro a 10 mila americani e i 5 miliardi sono il prodotto di 25 progetti avviati da zero e 34 acquisizioni: «Non è la politica ma il profitto a spingere gran parte delle aziende cinesi a investire in America» , hanno scritto due economisti del Rhodium Group. Tecnologia, energia, persino catene alberghiere. Ma quando si tratta di investimenti finanziari, quali sono i 1.160 miliardi di dollari in bond nelle mani di Pechino, la politica rientra dalla finestra. Quanto alle banche, marcano il territorio: prima della visita di Hu Jintao a Washington, la Bank of China (che non è la banca centrale) ha cominciato a offrire conti in renminbi a New York.
 IN EUROPA
Ansiosa di ottenere il massimo dal gioco di sponda fra Usa e Ue, dollaro ed euro, la Cina scommette sul Vecchio Continente. Se la nuova frontiera sono l’Est e i Balcani, l’Eurozona in difficoltà  fa conto sulla disponibilità  cinese a investire in bond. Prima della nuova picchiata della crisi, si calcolava che Pechino detenesse almeno 630 miliardi di euro in titoli di Stato. Sul fronte delle fusioni e delle acquisizioni, spicca la Volvo venduta dalla Ford alla Geely (1,8 miliardi di dollari, 2010). Un dato elaborato dalla londinese Dealogic valuta in quasi 44 miliardi di dollari l’investimento di società  cinesi nella Ue: sarebbero almeno 118 le aziende europee ormai controllate dai cinesi. Ha fatto scuola, forse, il colosso italiano dei cavi Prysmian, capace di battere la concorrenza della cinese Xinmao e acquisire l’olandese Draka. Raccomanda un rapporto dell’European Council on Foreign Relations: l’Europa «deve accettare una crescente interdipendenza e fare in modo che ad aumentare sia la dipendenza europea dalla Cina» .
 IN ITALIA
 Al netto del caso Prato e delle varie Chinatown, la Cina estende la sua presenza. Gli scambi di visite istituzionali consolidano un rapporto che ha un suo fronte finanziario. Il 13%del nostro debito, secondo il think tank Osservatorio Asia, sarebbe in mani cinesi, almeno 230 miliardi in titoli di Stato. Si muovono le banche, da Bank of China alla Icbc (Industrial and Commercial Bank of China, entrata anche nel board della Fondazione Italia Cina). Il centenario marchio Benelli è o r m a i d a t e m p o c i n e s e (Qianjiang), così le macchine per l’edilizia Cifa (Zoomlion) e i frigoriferi Meneghetti (Haier). La Cina è qui. Per restare.


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