La guerra di Libia dimenticata
L’ europaura, assieme a tante altre cose, ci ha fatto dimenticare la guerra che continua in Libia. Eppure su quella guerra la crisi finanziaria in atto promette di influire non poco, moltiplicando gli interrogativi che già circondano l’impresa.
Gioverà ricapitolare la situazione. Dato per spacciato innumerevoli volte, Muammar Gheddafi è ancora al suo posto. Appoggiati dai bombardamenti della Nato cui partecipa anche l’Italia, dalle forniture di armi non più segrete e da tanti buoni consigli tattici, gli uomini del Consiglio transitorio di Bengasi avanzano lentamente verso Tripoli ma non danno l’impressione di avere il controllo del campo di battaglia. In Occidente si vanno peraltro moltiplicando i dubbi su quel che accadrebbe dopo una conquista di Tripoli, perché l’uccisione del generale Abdel Fatah Younes ha svelato l’esistenza, nei ranghi ribelli, di fazioni contrapposte che potrebbero non esitare a contendersi militarmente i frutti di una vittoria. Soprattutto, in Libia (a differenza dell’Afghanistan, dove l’ottimismo è vietato ma un piano esiste) l’Occidente continua a non avere una visione condivisa del futuro, e alcune cancellerie si muovono semmai nell’egoistica prospettiva di futuri accordi petroliferi. Il tutto non esclude, beninteso, che una bomba più fortunata delle altre elimini Gheddafi, o che la vittoria dei ribelli possa essere davvero vicina.
Ma nell’ipotesi di uno stallo destinato a durare come è durato sinora, cosa cambia con la crisi finanziaria? Molto, soprattutto in termini politici. Negli Usa è chiaro a tutti che la rielezione di Obama, nel 2012, dipenderà dalla sua capacità di riportare la stabilità e possibilmente creare posti di lavoro. La Libia, che contava poco prima del downgrading e del contestato accordo con i repubblicani, ora conta zero. E Sarkozy, che della guerra è stato l’avanguardista? Anche lui deve tentare di essere rieletto l’anno prossimo, e la Libia, fino a ieri, era per lui un test cruciale. Oggi la sfida viene invece dalla salute delle banche transalpine, dalla possibile perdita delle «tre A», dalle misure che l’Eliseo dovrà prendere, e ben pochi elettori penseranno a Gheddafi il giorno delle presidenziali. Lo stesso vale per Cameron, con un euro in meno ma con i «tagli» alla polizia e i disordini giovanili che invece lo perseguiteranno ben più delle vicende tripoline. Superfluo dire che anche noi siamo della partita, anche Berlusconi ha ben altre gatte da pelare e non si preoccupa più di precisare che se fosse stato per lui gli aerei italiani non sparerebbero (la decisione fu invece doverosamente sua, sotto la pressione di un messo statunitense).
Insomma, la guerra continua ma i leader mondiali che ci avevano «messo la faccia» oggi si trovano a doversela giocare altrove. E se questo ancora non basta a suonare la ritirata, si spiega anche così la moltiplicazione dei tentativi di trovare una soluzione politica. Tentativi per ora falliti, perché Gheddafi rifiuta di cedere il potere anche nel caso gli venisse permesso di restare in Libia e gli uomini di Bengasi fanno segretamente del loro meglio per sabotare ogni piano di mediazione.
Forse gli umori cambieranno quando una delle parti si sentirà davvero con le spalle al muro. Ma intanto, se la cosa prenderà più di qualche settimana, il 20 settembre scadrà il mandato affidato dai governi alla Nato. Se dovesse essere necessario, Parigi e Londra lo rinnoveranno. E con le sue abituali capriole interne l’Italia non vorrà essere da meno. Ma dove saranno gli indici di borsa, per allora? E di quante risorse gli occidentali disporranno ancora? Forse si profila una guerra col pallottoliere, sempre meno rilevante, che sarebbe già finita non fosse per il petrolio.
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