La farsa democratica dei generali e il Faraone è consegnato alla piazza
Nell’aula del tribunale del Cairo, dove Hosni Mubarak è comparso ieri steso su una barella, è in gioco la credibilità della primavera araba, versione egiziana. Nella civiltà delle immagini, l’ex rais di 83 anni (dei quali 30 al potere) offerto agli occhi del mondo dietro le sbarre della gabbia riservata ai criminali, è già di per sé un avvenimento di enorme portata. Anzitutto inedito per l’Egitto che non ha mai visto un suo presidente trascinato davanti ai giudici. Uno pensa a Bagdad, dove Saddam Hussein fu processato e giustiziato. C’è tuttavia una profonda differenza. Il rais iracheno fu sconfitto e catturato dagli americani che l’hanno poi consegnato ai connazionali, ansiosi di condannarlo a morte; mentre Hosni Mubarak è stato destituito dai suoi.
È stato destituito dagli egiziani, durante una rivolta popolare, ed ora rischia la pena capitale in un momento cruciale per il paese.
In seguito a quella rivolta l’Egitto vive un difficile, tormentato periodo di transizione, da un regime autoritario a una democrazia, della quale disegneranno i contorni le elezioni d’autunno. Ma già il modo in cui si svolgerà il processo a Hosni Mubarak darà una precisa indicazione sulla natura della democrazia in gestazione. Le accuse, sia quella di omicidio (le 850 vittime della repressione di gennaio), sia quelle di malversazione e di corruzione (si parla di un patrimonio dei Mubarak di 40 miliardi di dollari), dovranno essere meticolosamente dibattute e non annegate in una retorica falsamente rivoluzionaria. Hosni Mubarak non è Luigi Capeto davanti alla ghigliottina. Né il dittatore destinato ad essere giustiziato sulla piazza dalla folla inferocita. Il suo processo è una prova di democrazia a cui la primavera araba, versione egiziana, è sottoposta. E quindi deve essere giusto. Senza concessioni. Ma serio. Né una farsa dunque, né un sacrificio propiziatorio per placare la collera popolare. Non un’imitazione dei tanti riti giudiziari, con sentenze già scritte, celebrati durante i trent’anni di Mubarak contro oppositori o presunti tali, non soltanto islamisti, e contro omossessuali, come i 52 imputati dieci anni fa nel processo del Queen Boat.
La prima udienza accende qualche sospetto. Quell’immagine del raìs vecchio e malato, in apparenza sofferente, steso in barella, dietro le sbarre, è stata trasmessa con un’insistenza che lascia intravedere l’intenzione di offrire un forte spettacolo teso a soddisfare coloro che insieme alla democrazia chiedono che sia fatta giustizia del vecchio regime, e che finora si sono sentiti inascoltati o addirittura beffati dai militari al potere. Quel vecchio malato, dato più volte sull’orlo della morte, e poi apparso all’improvviso, in aprile, lo sguardo allerta e la parola facile, sui teleschermi di Al-Arabiya a proclamare la propria innocenza, dà l’impressione di essere un personaggio usato con disinvolta accortezza, strumentalizzato, dai generali un tempo suoi subordinati e comunque colleghi. Subordinati e colleghi che all’inizio dell’anno hanno tentato di salvarlo, come si salva un compagno d’arme nei guai, e che poi l’hanno invitato ad andarsene, l’hanno di fatto destituito sotto la pressione popolare e degli americani. E che ora lo mandano in barella davanti ai giudici, come una concessione alla piazza.
Non bisogna dimenticare che dal 1952, anno in cui la rivoluzione degli “ufficiali liberi” mise fine alla monarchia, la Republica egiziana è inquadrata da una società militare, e che i quattro presidenti succedutisi da allora – Naguib, Nasser, Sadat, Mubarak – uscivano dalle sue file. L’influenza di quella società ha subito alti e bassi. Sia sul piano della sicurezza nazionale, interna ed esterna, come su quello politico ed anche economico, poiché molte industrie, da quella degli armamenti a quella alberghiera, sono affidate ai militari. I generali si sono dovuti adeguare a svolte importanti: dal socialismo nasseriano al liberismo di Sadat e Mubarak; dall’aperta ostilità verso Israele a una convivenza simile a un’alleanza con lo Stato ebraico; dalla stretta intesa con l’Unione Sovietica a quella (sovvenzionata) con gli Stati Uniti. Oggi il Consiglio superiore delle Forze armate, composto da (pare) diciannove generali, guida la transizione verso la democrazia, tra mille dubbi e sospetti.
Sospetti e dubbi basati non solo sullo scetticismo circa la capacità di fondare una democrazia da parte di militari da più di mezzo secolo abituati a regimi autoritari. La sempre più evidente tendenza dei generali ad ascoltare il principale partito religioso, quello dei Fratelli Musulmani, non appare a molti un sintomo positivo. Inoltre non sono in pochi a ritenere che la società militare abbia deciso di sbarazzarsi di Hosni Mubarak, anche perché egli stava preparando la propria successione nell’ambito della famiglia. Gamal Mubarak, detto ” jimmy”, uno dei figli, il politico, spinto anche dalla madre Suzanne, puntava ormai apertamente a sedersi sulla poltrona del padre ultraottantenne. Si era impadronito del Partito democratico nazionale, al quale aveva pocurato un forte successo elettorale nell’inverno del 2010, ricorrendo a truffe plateali, e si pensava fosse imminente una dichiarazione ufficiale sulla questione della successione.
Anche se devoti a Mubarak, i militari stentavano ad accettare che per la prima volta un civile, un borghese, sia pure figlio di un generale, occupasse la più alta carica dello Stato, e quindi il comando delle forze armate. E questo ha pesato l’11 febbraio, quando il Consiglio superiore, dopo molte esitazioni, ha accettato le richieste di piazza Tahrir e ha costretto Mubarak alle dimissioni. Ieri Gamal Mubarak era tra gli imputati, insieme al fratello Alaa, il finanziere. Non è insomma tanto avventato affermare che i militari processano la famiglia (con l’eccezione di Suzanne, la madre, la sposa influente) che stava per tradire la società militare.
Il processo a Mubarak, nelle condizioni di salute in cui si trova l’imputato, non certo le migliori, può dunque essere considerato anche un regolamento di conti all’interno della società militare, e non esclusivamente un passo verso la giustizia chiesto dalle formazioni democratiche. I militari si sono rivelati riluttanti a giudicare i compagni d’arme. Tra gli imputati non c’è ad esempio il generale Omar Suleiman, mano destra di Mubarak come capo dei servizi segreti. Si può, si deve processare l’ex rais, ormai innocuo e altamente simbolico, ma non i generali che contano ancora. Se questa è la regola quella egiziana rischia di essere una “democrazia militare”.
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