La destra processa il Presidente “È il downgrade di Obama”
NEW YORK. L’America è umiliata e offesa. Il mondo s’interroga sulle conseguenze. La Cina chiede garanzie con toni minacciosi. Il G7 dovrà occuparsene.
Il downgrading del debito pubblico Usa è uno shock globale. Il clamoroso annuncio dato da Standard&Poor’s nella tarda serata di venerdì (la notte di sabato in Europa) è uno schiaffo senza precedenti per la più grande economia mondiale. Rischia di trasformarsi in un “declassamento di Barack Obama”. La destra repubblicana ha immediatamente interpretato la perdita della “tripla A” sui titoli di Stato come un verdetto sul presidente e sul bilancio del suo governo. «Va licenziato subito il segretario al Tesoro Tim Geithner»: all’unisono questa richiesta è stata lanciata dai maggiori candidati repubblicani alla nomination per le presidenziali del 2012, Mitt Romney e Michele Bachmann. E proprio dal Tesoro è uscita la prima reazione ufficiale, stizzita. Geithner ha accusato S&P di macroscopiche inesattezze nei suoi conti: «Un giudizio fondato su errori di calcolo dell’ordine di 2.000 miliardi di dollari si commenta da solo».
L’attacco a S&P rivanga il passato: le agenzie di rating avviluppate nei conflitti d’interesse non furono capaci di prevedere i disastri dei mutui subprime e i crac bancari del 2008. Tuttavia una lettura attenta del documento di S&P che motiva il downgrading rivela singolari analogie con quanto disse Obama quattro giorni prima, al termine del defatigante negoziato coi repubblicani per alzare il tetto legale del debito pubblico e scongiurare in extremis il default. «La nostra economia reale merita la tripla A ma il nostro sistema politico non è all’altezza di quel voto»: parola del presidente, che martedì esprimeva così la sua frustrazione per essere stato tenuto in ostaggio dalla destra. Frasi analoghe sulla «inefficienza della risposta istituzionale al deficit pubblico», compaiono nel rapporto S&P. Dunque Obama e l’agenzia di rating sono d’accordo che qualcosa si è rotto nel dialogo bipartisan.
In passato, dalle situazioni di stallo fra un presidente e un Congresso di opposte tendenze, l’America usciva con compromessi e convergenze di segno moderato. Nello psicodramma sul debito invece si è verificata una situazione inedita: un pezzo del partito repubblicano, legato al movimento anti-Stato del Tea Party, avrebbe preferito senz’altro il default a qualsiasi concessione. L’accordo di Washington che lunedì ha evitato il peggio ha due difetti dal punto di vista del rigore. I tagli di spesa “immediati” sono in realtà scadenzati per il 2013, dopo l’elezione presidenziale. Le riforme strutturali per fermare l’ascesa del debito sono poi affidate a una commissione bipartisan (sei democratici e sei repubblicani): nel caso fallisca, scatterebbero dei tagli automatici alle spese militari e alla sanità . Le incognite sono troppe, a giudizio dell’agenzia di rating.
Chi trasforma il downgrading in una bocciatura della politica economica di Obama finge di dimenticare che il debito pubblico è il risultato finale di decisioni di spesa accumulate per molti anni, sotto Amministrazioni precedenti e con maggioranze parlamentari diverse. Il gesto inaudito di S&P è in realtà la registrazione “notarile” di un disastro finanziario che è in larga parte attribuibile a George Bush: due guerre, i dissennati sgravi fiscali ai ricchi che hanno abbassato il prelievo ai minimi storici, e infine la più grave recessione degli ultimi 70 anni che ha ulteriormente depauperato le risorse pubbliche.
Ora si addensano nuovi interrogativi sul futuro. La presa di posizione cinese segnala un’altra tappa nel declino di lungo periodo dell’egemonia americana: in prospettiva il ruolo “imperiale” del dollaro verrà ulteriormente ridimensionato sulla scena mondiale. Ma nell’immediato le preoccupazioni riguardano le ricadute sull’economia reale. La decisione di S&P era attesa dai mercati, ciononostante si ripercuoterà a cascata su altri downgrading di enti pubblici, con un possibile aumento dei tassi sui mutui e sul credito al consumo. Questo accade mentre l’America s’interroga sulla possibile ricaduta in una recessione dalla quale in realtà non è mai uscita (se invece del Pil si guardano i dati su salari, consumi, occupazione). E’ il duro avvertimento di Kenneth Rogoff, ex chief economist del Fondo monetario, che ricorda come «le recessioni nate da crac finanziari sono molto più lunghe, in media ci vogliono sette anni per smaltirne le conseguenze». Oltre a curare l’orgoglio ferito di una nazione leader che si scopre “retrocessa” dietro la Francia e l’Inghilterra (almeno nella tripla A di S&P) Obama deve soprattutto rispondere al profondo disagio di una middle class impoverita.
«Appena il Congresso torna dalle vacanze voglio sottoporgli nuove misure per occupazione, cominciando dalla creazione di una banca per gli investimenti in infrastrutture»: così Obama è ripartito ieri all’offensiva sull’emergenza-lavoro. Il downgrading lo costringerà però a tornare anche sulle riforme strutturali che riportino sotto controllo la spesa del welfare state: un terreno ostico perché lo scontro non è sui numeri, è sulla ripartizione sociale dei sacrifici.
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