La crescita dimenticata

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Ha trovato di fronte un’opposizione che ha concesso una rapida approvazione delle manovre e che, almeno nell’ultima settimana, ha aperto a riforme strutturali delle pensioni e dato la disponibilità  a tagli consistenti ai costi della politica, a partire dal dimezzamento dei parlamentari e dall’abolizione delle province. Eppure il governo non ha saputo porre rimedio ai vizi originari della manovra di inizio luglio: niente provvedimenti sulla crescita, troppo poco aggiustamento sul lato della spesa e stridenti iniquità .
La terza di queste manovre persevera quello che è ormai diventato diabolico. Non c’è nulla per far ripartire l’economia se non timidi incentivi alle liberalizzazioni dei servizi pubblici locali. Negli ordini professionali vengono ripristinate di fatto le tariffe minime, chiara barriera all’ingresso dei giovani professionisti che competono soprattutto offrendo prestazioni a basso costo. Cambiano solo di nome: d’ora in poi si chiameranno “tariffe di riferimento”. A proposito di riferimento, singolare notare che il nuovo balzello intitolato a Robin Hood, la sovratassa sulle società  energetiche, viene classificato nei prospetti sul decreto fra i provvedimenti a favore dello sviluppo. La quota di manovra che grava sulle tasse, anziché sui tagli di spesa, aumenta ancora di più: era di poco più del 50 per cento a inizio luglio, era arrivata a due terzi a metà  luglio ed è adesso salita a tre quarti. Le nuove tasse invece di spostare, come promesso, il prelievo fiscale dalle persone (che lavorano) alle cose, procedono nella direzione diametralmente opposta. Il contributo “di solidarietà “, strano termine per un prelievo coatto, colpisce quasi solo i redditi da lavoro dipendente. I nuovi tagli a Comuni e Regioni vengono accompagnati dalla concessione di autonomia impositiva, ma solo sull’Irpef: un incentivo a tassare ancora di più i redditi da lavoro. Tutto questo significa sicuri effetti recessivi dell’aggiustamento. Quanto all’equità , si continua a non voler contrastare efficacemente l’evasione fiscale per paura di indispettire il proprio elettorato: i dati disponibili sui patrimoni non vengono utilizzati per identificare chi dichiara poco o nulla al fisco a fronte di ingenti variazioni nei patrimoni, le misure sulla tracciabilità  hanno soglie tali da permettere il pagamento di affitti in nero nel centro di Roma magari a qualche milanese, l’obbligo agli scontrini fiscali senza controlli è un’arma spuntata, solo per salvare la faccia. Si fanno tagli solo simbolici ai costi della politica, tant’è che non vengono neanche contabilizzati dalla relazione tecnica al provvedimento. Sciogliendo subito tutti i consigli provinciali, aggregando i Comuni con meno di 5000 abitanti e riducendo a un terzo i parlamentari, i risparmi sarebbero invece tutt’altro che marginali. Regna una volta di più l’improvvisazione. Il Presidente del Consiglio, a poche ore dal varo di un decreto su cui ha chiesto la firma del Capo dello Stato, dichiara che non è d’accordo con molte delle cose ivi contenute. Alcune disposizioni (come il contributo di solidarietà ) sono in conflitto con le versioni precedenti della manovra, che prevedevano già  prelievi forzosi su alti dirigenti dello Stato e pensioni d’oro. Per capirne qualcosa bisognerà  dunque aspettare un nuovo decreto che dovrà  essere emanato entro la fine di settembre.
Quali sono i costi di questa incapacità  del nostro esecutivo di rimediare ai propri errori? Durante le crisi finanziarie ogni ritardo nel cercare di invertire le aspettative degli investitori obbliga a interventi sempre più consistenti. Servono per far capire a chi scommette sul ripudio del debito che perderà  tanti soldi se continua a farlo perché siamo in grado di rispettare gli impegni presi con chi ha comprato i nostri titoli di stato anche quando i tassi sono più alti. Questo fa lievitare l’entità  delle manovre: più tempo si perde, più oneroso l’aggiustamento richiesto per cambiare le aspettative. Da inizio luglio la manovra a regime è aumentata di 15 miliardi, quasi un punto di pil. Un’altra misura dei costi dell’indecisionismo del nostro governo viene dalle risorse investite dalla Bce nella scorsa settimana, per contrastare la crisi di credibilità : 22 miliardi di euro, spesi principalmente per comprare i nostri titoli di stato. Questa cifra ci dice che anche questa nuova manovra potrebbe essere inutile, che i sacrifici cui siano chiamati possono essere bruciati dall’aumento dei tassi di interesse sui nostri titoli di stato se il nostro governo non è in grado di continuare sulla via delle riforme, se non crede lui stesso nei benefici che queste possono dare in termini di crescita. I 22 miliardi investiti dalla Bce nel nostro salvataggio spiegano anche perché l’istituto di Francoforte abbia posto delle condizioni al nostro Governo per intervenire. Ecco un altro costo, di tipo reputazionale: siamo stati di fatto commissariati. La Bce, in verità , ci ha chiesto di fare le cose che avremmo dovuto fare comunque e da tempo. Il problema semmai è che la sua è una condizionalità  debole. Se Francoforte sospendesse gli acquisti dei nostri titoli di stato di fronte ad una manovra cosi deludente, ammetterebbe di avere buttato via 22 miliardi e si condannerebbe a intervenire la prossima volta con risorse ben più consistenti. Quindi la minaccia di sospendere gli acquisti non è credibile.
Dove non è riuscito un esecutivo che assomiglia sempre più ai governi balneari della Prima Repubblica, dovrà  riuscire il Parlamento che, da lunedì inizierà  a discutere del decreto. È difficile fare peggio. Eppure non poche proposte riescono in questa ardua impresa. Versare il Tfr in busta paga significa tassare ancora di più il lavoro e pregiudicare il futuro previdenziale dei giovani. Si sferrano con disinvoltura nuovi attacchi alla certezza del diritto, come se non fosse un bene prezioso da tutelare proprio in questi momenti in cui bisogna raccogliere fiducia fra i compratori dei nostri titoli di stato, tra cui figurano non pochi contribuenti. Ecco allora il governo che non esita a introdurre tasse retroattive, come il contributo di solidarietà , e a idearne di altre, violando il patto coi contribuenti. Anche il contributo aggiuntivo proposto dal Pd per chi ha beneficiato dello scudo fiscale, se mai fattibile, è una porcheria nella porcheria. Ma almeno ha un vantaggio: scoraggerebbe qualsiasi futuro condono, perché il patto con chi beneficia dell’amnistia fiscale non sarebbe più credibile.
Il dibattito su come cambiare la manovra sembra ignorare il fatto che non abbiamo bisogno di una tantum, ma di una semper. Perché il debito cresce anno per anno quando il tasso di crescita dell’economia è inferiore al tasso di interesse che paghiamo sui titoli di stato. Per questo dobbiamo aumentare il tasso di crescita. È questo il compito delle riforme strutturali di cui sorprendentemente nessuno parla in questi giorni. Cambiamenti nella composizione del prelievo fiscale possono servire ad intercettare la domanda che proviene dai paesi emergenti, l’unica parte del mondo che continua a crescere a tassi sostenuti, dato che anche la locomotiva tedesca sta decelerando. Bene ripristinare le tasse sulle prime case al di sopra di una certa soglia, bene ridurre le aliquote agevolate Iva, aumentando l’aliquota media effettiva, e usare queste entrate per ridurre tasse e contributi sul lavoro. Meglio concentrare questi alleggerimenti fiscali sui salari più bassi, sapendo che è lì che si favorisce la partecipazione al mercato del lavoro e che l’Iva è un’imposta regressiva, che incide di più sui redditi più bassi, sui salari di ingresso. Sarebbe anche un modo di pensare ai giovani, gli unici che davvero non hanno alcuna responsabilità  in questo debito colossale che grava sulle nostre spalle e che in tutti questi anni, per colpe interamente nostre, non siamo riusciti a ridurre.


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