Kosovo e Serbia, scontro di identità
I serbi di Mitrovica, a nord del fiume Ibar, non cedono. La guerra delle dogane iniziata da Belgrado e Pristina assume contorni molto più profondi. È la lotta tra due popoli, quello serba e quello albanese, che non si sono mai amati. Il fatto che sulla barricata innalzata a Rudare sia stata disegnata una grande croce ortodossa e che questa debba essere consacrata dalla chiesa serba, aiuta a capire quale sia davvero la posta in gioco. Non si tratta infatti di una questione commerciale, bensì di una disperata difesa di identità nazionale e culturale: da una parte, i serbi che non vogliono stare all’ombra della bandiera gialloblu di Pristina, dall’altra gli albanesi del Kosovo che non vogliono rinunciare alla propria integrità territoriale – sempre traballante anche sotto il profilo delle leggi internazionali e delle diplomazie.
Un vero nodo gordiano con il quale la comunità internazionale si sta cimentando – senza successo – da oltre un decennio: la risoluzione Onu 1244 del 1999 non è mai decaduta e secondo tale documento, il Kosovo sarebbe tuttora una provincia serba; l’assemblea generale delle Nazioni Unite e la Corte di giustizia internazionale hanno riconosciuto la legittimità della dichiarazione unilaterale d’indipendenza; 77 paesi riconoscono il Kosovo come stato sovrano; altri 61, no: tra questi Russia e Cina, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e Spagna, Romania, Grecia, Slovacchia e Cipro, stati membri dell’Unione Europea.
In questi giorni sono risalite in superficie tutte le incongruenze politiche e militari della comunità internazionale. Eulex e Kfor sono sulla lama del rasoio ed è facile per Belgrado accusare Unione europea e Nato di non essere neutrali e di agire al di fuori dei limiti posti dai loro mandati. È giusto, infatti, che i militari della Kfor e i funzionari Eulex impediscano in questi giorni il transito di merci serbe destinate al nord Kosovo applicando, di fatto, un ordine proveniente dal governo di Pristina? La risposta, secondo la risoluzione 1244, è: no. La Nato, che ha appena disposto l’invio in Kosovo di 700 soldati di stanza in Germania, dovrebbe garantire la pacifica convivenza tra le popolazioni del Kosovo e non diventare l’esecutore di un ordine amministrativo di Pristina.
Da nove giorni, i serbi che vivono a nord del fiume Ibar non ricevono cibo, medicine, carburanti e altre merci provenienti dalla Serbia. Dai valichi di Jarinje e Brnjak transitano solo automobili civili. Un camion che trasportava ossigeno destinato all’ospedale serbo di Mitrovica è stato anch’esso bloccato con la conseguenza che la sala operatoria ha dovuto fermare ogni attività .
Le attività di mediazione di Unione europea e Stati Uniti non producono gli effetti sperati sulla classe dirigente di Pristina che, come ha riferito il portavoce del governo di Belgrado Milivoje Mihajilović, anziché abbassare i toni “getta benzina sul fuoco”. Il premier Hashim Thaà§i ha ribadito ancora una volta che indietro non si torna e il ministro dell’interno Bajram Rexhepi – che vive a Mitrovica nord, tra i serbi – ha ordinato l’arresto del ministro Goran Bogdanović e del mediatore serbo Borislav Stefanović entrati in Kosovo “clandestinamente” per trattare con Kfor. Tutte parole e intendimenti che non aiutano il ritorno a una situazione se non di normalità – cosa impossibile in questo Kosovo – almeno di “semi-normalità “.
L’accordo. Il 4 agosto, Bogdanović, Stefanović e il comandante della Kfor, generale Erhard Brehler hanno raggiunto un accordo di massima: gli uomini della Kfor rimarranno ai valichi di Jarinje e Brnjak fino a metà settembre (salvo proroghe); Belgrado segna un punto a proprio favore ottenendo il libero transito per i camion con carichi umanitari, cibo compreso, fino a 3,5 tonnellate. In cambio, i serbi del nord Kosovo rimuoveranno i blocchi stradali e le barricate. Il premier Thaà§i, intanto, ha già fatto sapere che non riconoscerà un siffatto accordo.
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