In fuga con «la cassa», l’ultima carta dei tiranni

by Sergio Segio | 27 Agosto 2011 11:08

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Se Gheddafi ha resistito così a lungo lo deve a tre cose: è brutale, scaltro e ricco. Insieme ai figli — in particolare il cosmopolita Saif al Islam — ha nascosto risorse un po’ dappertutto. In Sudafrica, Algeria, Egitto, Ucraina, nei paradisi fiscali e in posti dove fanno poche domande quando arrivi con valige piene di soldi. I forzieri di Tripoli ospitavano, all’inizio della guerra, riserve in oro per 10 miliardi di dollari. Ci sono ancora? O il Colonnello le ha portate a Sebha, come hanno indicato alcune segnalazioni? I francesi, in un’analisi dei loro servizi, hanno aggiunto un dato. Almeno 50 i miliardi di dollari a disposizione dei lealisti.
La Guida ha usato queste risorse per ingaggiare agenti segreti, pagare mercenari, assoldare terroristi. Arabi, europei, slavi, americani, africani. Alcuni sono dei veri scudi umani. Altri sono più sofisticati. Sanno come muoversi in clandestinità , conoscono le regole d’oro per sopravvivere in un ambiente ostile, sono tecnologici. Così, in queste settimane, il dittatore si è protetto, ma ha anche continuato a lanciare messaggi. Ogni volta che hanno scritto che era nell’angolo, lui è spuntato fuori con un audio. D’accordo, basta poco. Ma è comunque un segnale di sfida. Sempre con il denaro si possono convincere dei ribelli a guardare dall’altra parte. Ed è forse quello che hanno fatto i suoi figli, scappati in modo rocambolesco. Una via bloccata può essere riaperta, una pista d’aeroporto può diventare all’improvviso disponibile, una casa trasformarsi in rifugio protetto. Altri transfughi del regime sostengono che il clan Gheddafi ritiene di avere ancora margini di manovra. Lo dicono nelle loro rapide apparizioni e ci credono per davvero. Importante, per loro, conservare dei capisaldi. Come Sirte o qualche oasi imprendibile. O ancora un tratto al confine con la Tunisia (circa 40 km) usato per molti traffici. I lealisti puntano su due elementi. Il fattore Tempo: alla lunga l’opposizione può spaccarsi. Il fattore Soldi: per alimentare la lotta a oltranza. Importante è non crollare, poi vedranno come pianificare il «ritorno». Lo hanno sostenuto fin dal giorno 1 della rivolta.
I dittatori, a volte, perdono il trono ma non i loro tesori. O perlomeno non del tutto. Alcuni sono congelati dalla comunità  internazionale, altri diventano oggetto di leggende e storie vere. Il caudillo paraguaiano Francisco Là³pez Carrillo, un despota infatuato di Napoleone, ha nascosto nel 1870 oro e gioielli in una zona impervia del Paese. Un gruzzolo mai trovato. Alla fine della Seconda guerra mondiale, i nazisti avrebbero trasferito un miliardo di dollari a bordo di sottomarini in Argentina. C’è chi crede che su quegli «squali» ci fosse anche Adolf Hitler. Montagne di denaro — è il secondo capitolo — finite poi nelle mani dei Perà³n. Un destino identico avrebbe avuto il tesoro del generale giapponese Tomoyuki Yamashita. Lui è stato giustiziato nel 1946, mentre le ricchezze depredate durante il conflitto sarebbero state trovate dal futuro presidente filippino Marcos. Lui stesso poi al centro di un caso internazionale legato al blocco dei suoi beni. E poi ancora Saddam Hussein. Un collaboratore sostiene che siano scomparsi quasi 100 miliardi di dollari. Un mistero accompagnato da operazioni di 007, regolamento di conti tra i gerarchi del partito Baath e finanziamenti ad alcune componenti della ribellione irachena. Fondi portati a Dubai e a Damasco che sono serviti per armare i nostalgici anche dopo l’impiccagione di Saddam. Altro quadrante geografico. I Caraibi. Quando Baby Doc, erede del tiranno Papa Doc, è rientrato ad Haiti dopo il terremoto, tutti hanno pensato: eccolo, grazie ai soldi che ha portato all’estero, potrà  dire ancora la sua nonostante il proprio passato nero come la pece. Ma forse non ha più quello che tutti credono e il suo rientro era proprio finalizzato a recuperare una parte dei 4 milioni di dollari gelati nei conti svizzeri.
Quando cade un raìs, i suoi avversari cercano subito di mettere le mani sulla cassa. Interna ed esterna. È accaduto in Tunisia con Ben Ali e in Egitto con Mubarak. Domani potrebbe avvenire con Bashar Assad che — secondo fonti mediorientali — si è preparato chiedendo un «prestito» all’alleato iraniano. Un contributo determinante per resistere alla rivoluzione.
E il filo ci porta ancora alla famiglia Gheddafi. In tanti la hanno abbandonata. Testimonianze riferiscono di militari che hanno buttato il fucile perché non erano più sicuri di essere pagati. La stessa cosa hanno fatto diversi soldati di ventura. Qualcuno se ne è tornato a casa, nella ex Jugoslavia, e lo ha persino raccontato. Ma altri sono rimasti. Per scelta, perché sanno che nei loro riguardi non vi sarà  clemenza. O semplicemente per denaro.

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