In barella dietro le sbarre via al processo a Mubarak “Oggi l’Egitto è più libero”

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IL CAIRO – Quando alle 9,56 in punto una barella entra nella selva di sbarre di ferro della “gabbia” dei prigionieri, come un’onda di terremoto si sprigiona improvvisa e segreta. Parte dall’accademia di polizia del Cairo, dove su quella barella è sdraiato l’imputato Mubarak. Corre nelle strade, entra nelle case del Cairo, di tutto l’Egitto. Ma soprattutto vola attraverso i satelliti della tv ed entra in ogni palazzo, ogni luogo, villaggio e città  di tutto il mondo arabo.
Alle 9,56 si capisce che su quel lettino c’è proprio lui, Hosni Mubarak. Incredibile. Marwan, il padrone della pizzeria araba in cui ci siamo fermati, rimane a bocca aperta. Così tutti. A bocca aperta, poche parole, gli occhi spalancati, le sigarette sospese. Il signor Marwan ha lavorato nel Golfo: «Lì la staranno guardando tutti gli sceicchi, gli emiri, tutti i capi. Ma anche quelli come me, i camerieri, i commercianti: l’Egitto dà  un esempio al mondo arabo, noi processiamo il dittatore». Si ferma, trema, ammette: «Io però sono confuso, adesso capisco che ho odiato il suo regime, ma non odio quell’uomo, e ho paura di tutto quello che sarà  senza di lui». «Non avere paura, devi esser felice», gli dice un altro, «finalmente i morti di questo regime potranno avere giustizia».
Il processo ad Hosni Mubarak e alla sua banda è iniziato. Ci sono lui, i due figli Gamal e Alaa, l’ex ministro degli Interni e 6 ufficiali di polizia. Le accuse sono la somma dell’orrore che viene imputato al regime: aver ordinato di sparare contro i dimostranti, aver truccato le gare d’appalto per fare soldi illegalmente. Terrore e tortura assieme a mazzette e ruberie. I procuratori e gli avvocati delle famiglie dei morti sono precisi: nomi e cognomi, eventi contestati, come l’ordine ai sottoposti di dire che c’era disposizione di sparare lacrimogeni, non proiettili veri. Quando Mubarak parla dal suo lettino al microfono, ha un filo di voce ma la forza di un vecchio leone arrogante: «Respingo tutte le accuse, completamente». Il processo è stato aggiornato al 15 agosto, sarà  una lunga battaglia politica e legale.
Sospettosi, dietrologi da millenni, gli egiziani temevano fino all’ultimo che potesse esserci un trucco, un ripensamento. Una sospensione del processo. E invece era chiaro: il regime che per salvarsi ha disarcionato Mubarak, i militari che lui stesso comandava, quel maresciallo Tantawi che pendeva servile dalle sue labbra, hanno capito che dopo averlo sacrificato dovevano processarlo. Offrendolo alla piazza.
E la piazza ha gradito: ovunque impazzano i commenti entusiasti. Cairo è una città  di 20 milioni di anime, non è possibile che rimanga ferma neppure un momento: ma ieri milioni sono rimasti a guardare per ore. Su Internet uno dice “gioisci, madre dei martiri!”. Quando com’era prevedibile l’avvocato di Mubarak ha convocato come testimone il maresciallo Tantawi, molti sono esplosi: «E’ vero, è giusto, anche lui deve pagare, dov’era lui se non dietro Mubarak?». La mossa dell’avvocato è doppia: da una parte chiede di ascoltare ben 1600 testimoni, praticamente tutta la classe dirigente politico-militare dell’era Mubarak. Dall’altra nominando in aula Tantawi ricorda ai marescialli rimasti asserragliati nei palazzi del potere militare che il suo cliente e i figli sanno tutto di questi uomini su cui fino a 6 mesi fa comandavano.
Ieri mattina, già  prima che il processo iniziasse, fuori dell’aula ci sono stati scontri fra sostenitori del vecchio presidente e parenti delle vittime. «Mubarak, tieni la testa alta! Mubarak, raderemo al suolo il carcere se verrai condannato», urlavano i fedelissimi. I mille poliziotti schierati intorno all’accademia si muovevano caotici e incerti: dopo le settimane della repressione, la polizia per giorni e giorni è rimasta in caserma, adesso sembra aggirarsi senza ordini per la città . Ma poi i celerini sono partiti alla carica, bastonate contro le pietre che la gente di Mubarak lanciava sui parenti dei “martiri”. La gioia del popolo della rivoluzione egiziana ritorna: dopo il silenzio e l’incredulità , gli anatemi e gli slogan. «Allah dovrebbe bruciare il cuore di Mubarak», dice Mohammed Morsi sulla piazza davanti al tribunale: è sceso in piazza con i vestiti del figlio di 8 anni ucciso dai poliziotti, ci sono ancora le macchie di sangue e i fori dei proiettili. Dice una giornalista di Al Ahram: «Qualcuno scrive che la rivoluzione d’Egitto è stata soltanto una deposizione: forse è vero, ma qualunque cosa sia adesso è scolpita nella storia».


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