by Sergio Segio | 10 Agosto 2011 6:55
A poche ore dall’appello di Obama aprono in picchiata, evitano in extremis un crollo come quello di lunedì, ma il segnale degli investitori è che la debolezza strutturale di Usa e Ue sta ormai frenando anche la corsa della locomotiva d’Oriente. Al termine di un’altra giornata shock, e a Borse asiatiche chiuse, rompe così il silenzio il governo di Pechino. Il premier Wen Jiabao chiede ai «Paesi rilevanti» di «assumere concrete e responsabili politiche fiscali e monetarie». Per quasi una settimana le autorità cinesi hanno affidato ai media di Stato il compito di attaccare il debito del loro primo debitore e il ritardato allarme delle agenzie di rating occidentali. Lo spettro di una recessione mondiale inizia però ad agitare anche il giovane ceto medio della Cina e i leader comunisti temono di risultare infine le prime vittime di un’implosione del capitalismo. «La Cina – dice Wen Jiabao quando in Asia è già sera – sostiene lo sforzo dei principali partner e delle banche centrali del G20 per mantenere la stabilità finanziaria e sostenere la crescita economica. La comunità internazionale deve però lavorare per mantenere la sicurezza degli investimenti e la stabilità dei mercati, per rafforzare la cooperazione e il coordinamento sui controlli macroeconomici». L’affondo anticipa di poco la riunione della Federal Reserve, decisa ad adottare nuove misure di stimolo avversate da Pechino, ma chiude una settimana di accuse senza precedenti partite dalla Cina all’indirizzo di Stati Uniti ed Europa. Il governo cinese è scosso dai segnali di cedimento del proprio modello di sviluppo e per la prima volta è sotto attacco anche in patria. Milioni di nuovi consumatori, piccole e medie imprese private, banche e investitori accusano la leadership del partito di aver esagerato con gli investimenti in dollari ed euro, pagando i debiti stranieri e ignorando le condizioni reali in cui vive la popolazione nazionale. Non era mai accaduto che il censurato internet cinese venisse preso d’assalto dai messaggi che puntano il dito contro Pechino per i conti di Washington e Bruxelles. Da venerdì succede e le autorità sono accusate di «sfruttare la schiavitù e la povertà dei cinesi per prestare i loro soldi alla libertà e allo spreco degli Usa». Il partito teme che il tonfo economico dell’Occidente, decapitando l’export, si traduca in incontrollabili rivolte sociali in Oriente. In mattinata la scossa arriva però in Cina dai dati interni di luglio. L’inflazione è schizzata al 6,5% (6,4% in giugno), il massimo da oltre tre anni. Balzano del 7,5% anche i prezzi alla produzione (più 7,1% in giugno). A impressionare, gli aumenti degli alimentari: più 14,8% in un anno, addirittura più 57% il prezzo della carne di maiale, ingrediente base nazionale. Già minate dal boom dell’immobiliare, le autorità sono nel mirino anche di banche e amministrazioni locali, indebitate fino al collo. La produzione industriale tiene, più 14% in luglio (più 17% del 2010) e non si raffreddano i consumi, a più 17,2%. Sono però consumatori e investitori ora in rivolta: chiedono che invece di acquistare T-bond, Pechino finanzi l’edilizia popolare e la previdenza, renda accessibile la sanità e completi le infrastrutture. Le Borse dell’Asia, assorbito l’urto del rating Usa e del debito Ue, sono spaventate ora dall’inflazione cinese ed esposte ai limiti reali di un’economia che si scopre dipendente dal prestito. Come scongiurare l’inedito triplo stop simultaneo di America, Europa e Asia? A tarda ora ne parlano al telefono il vicepremier cinese Wang Qishan e il segretario al Tesoro Usa, Timoty Geithner. Colloquio teso a preparare la missione del vice di Obama, Joe Biden, in Cina e Giappone dopo Ferragosto.
Se da una settimana Pechino è più fragile, anche Tokyo non riesce a superare il collasso post-tsunami. Sono passati cinque mesi e lo sfiduciato governo giapponese conferma l’addio all’economia atomo-dipendente. Un capolinea simile a quello cinese: la fine di un ciclo e di un modello è certa, l’alternativa a breve è impossibile e la soluzione ignota. Da Tokyo a Shanghai e da Seul a Hong Kong le Borse così scendono, sono ai minimi da un anno, ma ancora resistono. «Nemmeno in Cina si scommette più su domani – dice Qu Hongbin, analista di Hsbc –: sappiamo che l’Asia è al limite e che se lo passa l’era della globalizzazione si chiude per tutti».
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