Il risveglio sul Titanic

by Sergio Segio | 11 Agosto 2011 7:28

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Un governo senza storia, guidato da un premier senza vergogna, insegue un obiettivo senza speranza. Ritrovare la forza di una politica e la dignità  di una leadership, per imporre al Paese la cura dolorosa ma necessaria senza la quale c’è solo l’Apocalisse. Questo tentativo, continuamente inseguito e continuamente fallito, marchia a fuoco la via crucis degli incontri tra la risibile “armata berlusconiana” e le parti sociali. Li rende ogni volta velleitari, deludenti e dunque alla fine tragicamente dannosi.
«Negli ultimi cinque giorni tutto è precipitato», sostiene preoccupato Gianni Letta. Peccato che il governo non se ne sia accorto. L’effetto della “scoperta” fatta dal plenipotenziario del Cavaliere è quanto meno surreale. Ricorda il ministro della Propaganda iracheno, che diceva davanti alle telecamere «We are in controll» mentre i tank americani sullo sfondo varcavano le porte di Bagdad. Qui la crisi ha varcato i confini dell’Italia da almeno tre anni. E nessuno se n’è accorto, se non i cittadini che hanno subito una caduta dei redditi, dei consumi, dell’occupazione. Non se n’è accorto Berlusconi, convinto da sempre che “la nave va” perché gli italiani fanno la fila sulle autostrade nei weekend, riempiono i ristoranti la sera e comprano tanti cosmetici. Analisi dotta, da “statista” e uomo d’azienda, che dimostra di sapere bene «come funziona l’economia». Non se n’è accorto Tremonti, che dopo aver intravisto la “tempesta perfetta” all’inizio del 2008, invece di fronteggiarla si è scansato, parlando a lungo di filosofia, salvo informarci alcuni anni dopo che sul Titanic affondano tutti, e non si salvano nemmeno i passeggeri di prima classe. Analisi “colta”, da commercialista e uomo di mondo, che dimostra di sapere bene come si deprime un’economia.
E adesso siamo qui. Con il presidente del Consiglio che dichiara che bisogna anticipare il pareggio di bilancio al 2013, ma non sa dire perché siamo arrivati a questo punto, come contiamo di uscire dalla tormenta e chi pagherà  il conto finale. Con un ministro del Tesoro che annuncia che «la manovra va ristrutturata», ma non sa spiegare alle parti sociali dove era sbagliata quella vecchia e come cambierà  quella nuova. Un raro esempio di inettitudine, riscrivere una manovra finanziaria due settimane dopo averla varata, e averci spiegato che erano ridicole le critiche di chi lamentava il folle rinvio del risanamento del deficit al biennio elettorale 2013-2014, ed erano assurdi i dubbi di chi temeva una risposta negativa dei mercati e una risposta perplessa della Ue e della Bce. «La manovra è perfetta e strutturale, ed è esattamente come ce la chiede l’Europa»: questo era il “dogma”, alla fine di luglio. Si è visto il risultato. Governo italiano commissariato dal “direttorio” Merkel-Sarkozy, lettera-capestro della Banca centrale europea sulle misure urgenti da varare subito, oltre 48 miliardi di aumento del costo del debito come risultato dell’impennata degli spread, quasi 80 miliardi bruciati in Borsa come risultato della perdita di capitalizzazione delle nostre banche.
Questa improbabile “coppia di fatto”, un premier sfiancato dagli scandali privati e dal discredito internazionale e un ministro fiaccato dagli intrighi immobiliari e dai nemici interni, azzarda ora un decreto straordinario per il 18 agosto. Mossa disperata, ma purtroppo tardiva, ambigua e poco credibile. Mossa tardiva, perché era chiaro a tutti già  un mese fa che la speculazione, dopo aver fatto le prove generali su Irlanda e Grecia, affilava le armi per un’estate di fuoco contro Eurolandia e i suoi debiti sovrani, e dunque sarebbe stato necessario lanciare subito, già  allora, un segnale immediato sulla volontà  di accelerare il pareggio di bilancio. Mossa ambigua, perché ora non si capisce davvero dove il governo voglia colpire. Berlusconi, ubriaco dei soliti fumi ideologici, non vuole introdurre nessuna “patrimoniale” perché «è una cosa di sinistra». Bossi, ebbro dei soliti vizi antropologici, non vuole misure sulla previdenza perché «le pensioni padane non si toccano». Tremonti, isolato e insultato da tutti, non sa più cosa toccare, se non i soliti ticket sanitari a carico dei soliti noti del ceto medio e basso. Tutti insieme, irresponsabilmente, non sanno far altro che aprire inutili tavoli. Un tavolo sul lavoro affidato a Sacconi, un tavolo sulle infrastrutture affidato a Matteoli, un tavolo sulle privatizzazioni affidato a Romani. Tutto precipita, intorno al Palazzo romano, e loro si siedono a chiacchierare senza dire nulla. Non un’idea concreta sui sostegni alla crescita economica, non una parola pratica sul taglio draconiano ai costi della politica.
Mossa non credibile, dunque, per tutte queste ragioni. E sia detto senza alcun compiacimento, ma al contrario, con tutta la preoccupazione imposta dalla fase. Nessuno può più giocare al «tanto peggio tanto meglio». L’opposizione non deve cedere alle derive “sfasciste”, la Cgil non deve cedere alle pulsioni massimaliste (delle lacrime di coccodrillo piante adesso dalla Cisl e dalla Uil non vale nemmeno la pena di parlare, tanto è stato penoso il collateralismo di Bonanni e Angeletti in questi ultimi tre anni). Ma è evidente che questo governo non può farcela. Non è mai stato all’altezza del compito in tempi normali. Figuriamoci oggi, in tempi emergenziali. Si obietta che una «discontinuità  politica in questo momento sarebbe troppo rischiosa. Ma anche questo, ormai, è tutto da dimostrare. E comunque oggi c’è in ballo molto di più del destino di un governo. In gioco, qui come nel resto d’Europa, c’è il risparmio e il lavoro delle famiglie, il mercato e gli investimenti delle imprese. La “posta” è l’Italia. Una posta troppo alta e troppo importante, per lasciarla ancora nelle mani di Berlusconi, Bossi, Tremonti e Scilipoti.

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