il rischio microlobby per la Lega in affanno
Anche in un momento come questo in cui le ragioni del federalismo sono brutalmente sottomesse alla forza della Grande Crisi e al potere dei mercati finanziari, non bisogna dimenticare come l’idea di autoresponsabilizzare le comunità politiche locali resti una delle più interessanti intuizioni riformistiche degli ultimi 20 anni. Dico questo ben sapendo che nella lotta politica non ci sono e non ci devono essere pasti gratis, e quando un partito mostra di essere in difficoltà i concorrenti legittimamente ne gioiscono e tentano quasi subito di approfittarne. Se poi si tratta di un avversario scomodo, come la Lega, non sorprende come in molti possano scommettere su una sua implosione e sperare di regolare i conti, una volta per tutte, con le istanze politicamente scorrette che ha veicolato in questi anni. Ma attenzione, siamo in uno di quei frangenti in cui la concorrenza tra partiti deve convivere con considerazioni di tipo sistemico e con preoccupazioni più ampie sulla tenuta della democrazia. La Lega, nel bene e nel male, è stato un potente aggregatore della società italiana e della sezione più competitiva di essa, il Nord. Non è affatto detto che una sua implosione si rivelerebbe utile per i destini dell’Italia, i ceti che in qualche maniera ha incluso nel circuito democratico probabilmente non si rivolgerebbero verso altre offerte politiche ma accentuerebbero i sentimenti di estraneità nei confronti della comunità nazionale. Ci conviene? Prima del boom leghista «il piccolo», una componente decisiva dell’antropologia italiana, era rimasto prevalentemente ai margini del discorso pubblico e il suo successivo interessamento alla politica ha invece contribuito ad allargare i confini della nostra democrazia. C’è, dunque, bisogno di un Carroccio che svolga — non in regime di monopolio, per carità — il ruolo di filtro tra l’artigiano e la res publica, ma perché possa accadere due sono le condizioni: a) una leadership che non vada su «Scherzi a parte»; b) un aggiornamento di cultura politica. Una Lega debole è preda di microlobby, lo abbiamo già visto con l’ingloriosa vicenda delle quote latte e con l’arroganza degli allevatori che si sono presentati a Pontida con le loro bandiere. Un Carroccio fragile diventa incapace di scegliere e, come nel caso di un possibile intervento sulle pensioni di anzianità o del taglio delle Province, si trasforma in un baluardo della conservazione, più vicino a una Fiom del Nord che a una forza politica lungimirante. Sul versante della cultura politica la Lega già ha subito una mutazione. Da partito «ottimista» e liberista di massa orientato a inserire la piccola impresa del Nord nel circuito economico europeo, ha in seguito introiettato i fantasmi della globalizzazione. Ha fatto suoi gli incubi dei «piccoli» e non ha saputo dare risposte diverse da «leggine» di stampo protezionista. E ogni battaglia che i suoi amministratori hanno dichiarato contro aziende in procinto di delocalizzare si è conclusa con un flop. Ha senso continuare a battere queste strade? In fondo Alberto da Giussano era un coraggioso.
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