Il Nobel Spence: “La crisi è diventata un rompicapo globale”

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ROMA – «Il downgrading dell’America è sicuramente una notizia-shock, ma non risulterà  sorprendente per i mercati alla riapertura di lunedì. Sono ben altri i motivi di turbativa in questo momento, a partire dalle tensioni europee». Michael Spence, economista di Harvard, poi docente a Stanford, alla Bocconi e infine alla New York University, ha vinto il Nobel 2001 per i suoi studi sulle «informazioni asimmetriche» che arrivano sui mercati e ai loro effetti. E non c’è informazione più «asimmetrica», nel senso di inusuale oltre che difficile da interpretare, che il declassamento dell’America sotto il livello della Finlandia o della Danimarca.
Professore, non suonerà  sorprendente ma preoccupante almeno sì.
«Come negarlo? Però era nell’aria, ed è già  stata scontata da Wall Street, come spesso accade in casi del genere. La minaccia era stata formulata espressamente da tutte e tre le agenzie americane di rating (e da quella cinese Dagong): ora bisognerà  vedere se Moody’s e Fitch vi daranno corso. Il problema non è la reazione dei mercati, è vedere quanto a lungo durerà  questa condizione anomala di doppia anziché tripla A. Non sono affatto ottimista al proposito».
Perché?
«Perché è forte la sfiducia nella politica americana. L’ha detto S&P’s, l’ha accennato persino Obama e l’esasperante trattativa sul debito l’ha dimostrato: non c’è misura rilevante di contenimento alla spesa o aumento delle entrate che possa passare senza incappare nel veto di una delle due parti. I due schieramenti sono divisi come non mai e lo resteranno fino alle elezioni del 2012, ecco che siamo allo stallo. Qualsiasi programma serio di rientro è oggi ben lontano anche dall’essere solo architettato. L’accordo sul debito è stato raggiunto perché Obama ha ceduto sulle tasse ai ricchi: ma alla fine l’intesa valeva 2,1 miliardi contro i 4 richiesti dalle agenzie, malgrado le proteste interpretative dell’amministrazione. Inesorabilmente è scattato il dowgrading, che resterà  in vigore fino a ben oltre le prossime elezioni. In Italia, a ben guardare, avete meno problemi di questo tipo, perché c’è una solida maggioranza che abbraccia l’intero ramo legislativo».
«Solida» forse è un po’ troppo.
«Su questo, mi lasci osservare che il Berlusconi “seconda maniera” di venerdì è risultato ben più convincente. Evidentemente è stato ben consigliato dai leader occidentali, americani compresi, con i quali si è consultato. Vedete, il vostro governo è debole e incerto, non c’è dubbio, però va detto che la situazione internazionale è davvero spinosa. C’è una massa di debiti in giro per il mondo, generatasi con l’esplosione finanziaria pre-crisi, tale da creare un rompicapo globale quasi insolubile».
A proposito di crisi, è vero, come dicono i repubblicani, che Obama porta la colpa dell’esplosione del debito Usa per i suoi massicci programmi keynesiani di stimolo?
«In una minima misura è vero, anche se molto dei fondi impegnati stanno già  tornando indietro, dalle banche alle case auto. Però a questo punto c’è da ascoltare anche quello che dice la cosiddetta sinistra democratica, alla Krugman: visto che si è fatta la scelta keynesiana, si doveva farla fino in fondo, impegnando ancora più soldi, sempre scegliendo con cura i settori capaci di generare crescita, dalle infrastrutture alla ricerca».
Ma i risultati sul debito?
«Non è detto che sarebbero stati peggiori, perché avrebbero generato uno sviluppo in grado di trainare il mondo. Invece proprio qui si è inceppato tutto: la scarsa crescita, in America come in Europa e ora perfino in Asia, ha bloccato il «deleveraging», il rientro dall’indebitamento, pubblico e privato. Solo i bilanci di alcune aziende sono buoni: ma appena possono vanno a investire in qualche altra località  remota anziché in America o in Europa».


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