Il «miracolo» cileno travolto dalle proteste
RIO DE JANEIRO — Prima gli studenti in piazza, poi gli insegnanti, gli operai e i dipendenti pubblici. Manifestazioni sempre più imponenti, con code di teppismo urbano e reazione decisa della polizia. Richieste forti, strutturali, fino alla proclamazione di due giorni di blocco totale. Il governo che resiste, poi tenta di aprire ma non riesce a fermare l’onda che vuole sommergerlo.
Sembra uno scenario di qualche decennio fa, ma è il Cile di queste settimane, una società scossa dal malcontento, dalla rabbia, con la sensazione crescente che i bei numeri non bastano più. Il Paese miracolo dell’America Latina, modello nelle scuole di business, che si mostra invece nudo nel divario tra i tanti segni più della macroeconomia e la realtà quotidiana: differenze sociali inaccettabili a questo livello di sviluppo, università e sistema sanitario dai costi proibitivi, troppi lasciti della dittatura, due decenni dopo la sua fine. E come avveniva negli anni dei confronti più duri, ecco la tentazione di dare una spallata finale al governo di destra di Sebastià¡n Pià±era (crollato al 20% di popolarità ), attraverso uno sciopero generale. Mercoledì e ieri, in tutto il Cile, con in testa la più grande centrale sindacale e l’aristocrazia operaia del Paese, i minatori del rame. L’idea è cavalcare i successi degli studenti medi e universitari che da mesi, senza sosta, sfidano il governo sulla riforma della scuola. Più il governo proibisce le manifestazioni, più cresce la partecipazione dei ragazzi. Più il governo cerca di screditare la protesta additando i teppisti, i negozi saccheggiati e i poliziotti feriti, più brilla la stella di una ragazza comunista ventitreenne che porta il nome di Camila Vallejo e un piercing al naso: ieri il britannico Guardian ha (addirittura) scritto che la leader degli studenti cileni è la ribelle latinoamericana più carismatica dai tempi del Subcomandante Marcos. Per raccogliere consenso tra la gente, ai ragazzi basta citare un dato che è un fatto, l’università in Cile è la più cara del mondo dopo gli Stati Uniti e di conseguenza classista, la privatizzazione della dittatura militare ha fatto sparire gli investimenti pubblici nell’educazione e nella ricerca. Lo stesso vale per la sanità e il sistema pensionistico, dopo la tanto osannata riforma di Pinochet e dei suoi Chicago Boys degli anni Ottanta.
Il Cile, insomma, si è ricordato che molte camicie di forza imposte dai militari e la loro stessa Costituzione sono ancora in vigore. I sindacati ne chiedono apertamente la riforma, attraverso plebisciti, e vogliono cambiare le leggi sul lavoro che vennero imposte con il sangue dopo il golpe del 1973. Propongono anche una riforma tributaria, per ridurre i privilegi fiscali dei più ricchi, e il ritorno a una previdenza pubblica non limitata agli assegni minimi per gli indigenti. Viene spontaneo chiedersi perché tutto questo oggi, dopo che per quasi vent’anni il Cile democratico è stato governato dal centrosinistra e l’ex presidenta Michelle Bachelet, in carica fino a un anno e mezzo fa, è tuttora il politico più amato del Cile. «C’è stata una sorta di amnesia generale sui problemi sociali per troppi anni — spiega il sociologo Alberto Mayor —. Si è avuta paura di disturbare la transizione, di ricreare gli scontri frontali degli anni più bui della nostra storia. La vittoria di Pià±era è stata la conseguenza dei fallimenti della sinistra, delle aspettative deluse. Ora che tutto è rimasto come prima anche con la destra, ecco scoppiare il malessere».
Il governo ora sostiene che lo sciopero generale è fallito, che il Cile ha funzionato normalmente in questi due giorni. Certo, la capacità di mobilitazione dei sindacati non è la stessa di un tempo, né ha la forza di quella degli studenti. Ma per Pià±era è una magra consolazione: la strada per piegare la Vallejo e i suoi ragazzi, pronti a ricominciare già domattina, appare sempre più tortuosa.
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