Il default di Obama

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 «Mancano ancora delle importanti votazioni al Congresso, ma voglio annunciare che i leader dei due partiti, nelle due Camere, hanno raggiunto un accordo che ridurrà  il deficit ed eviterà  il default. Un default che avrebbe avuto un effetto devastante sulla nostra economia. Comincia a diradarsi l’incertezza che pesava sulla nostra economia», ha annunciato, con la voce un po’ emozionata, Barack Obama da Washington domenica sera alle 20,40, le 2,40 del mattino in Italia. Con questa dichiarazione sembra spazzato via l’incubo del default del debito sovrano statunitense che incombeva sull’economia mondiale.

Quello appena trascorso non è stato un fine settimana tranquillo, ma di trattative serrate fino all’annuncio dell’accordo raggiunto a poco più di 24 ore dalla scadenza per innalzare il tetto ed evitare il default del Paese. Non è certo il piano che desiderava Obama. Il quale nella dichiarazione l’ha detto esplicitamente: «Abbiamo trovato un compromesso, entrambe le Camere sono d’accordo. Non è il piano che avrei voluto, ma allontana dalla nostra economia l’ombra dell’incertezza».
Ma trovato l’accordo non è ancora finita: il Congresso deve ancora votare e, se al Senato la maggioranza di 60 voti sembra garantita, alla Camera i repubblicani del Tea Party e i liberal democratici potrebbero ancora giocare brutti scherzi. Il voto dovrebbe arrivare già  oggi: secondo indiscrezioni il Senato dovrebbe procedere nel primo pomeriggio americano e il testo dovrebbe passare subito dopo alla Camera. Il capo dei democratici al Senato, Harry Reid, parla di «storico compromesso bipartisan che mette fine a uno stallo pericoloso», mentre il presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, attribuisce al suo partito una sostanziale vittoria: «Non c’è nulla in questo accordo che contraddica i nostri principi. Non ci siano nuove tasse».
L’accordo prevede un aumento del tetto del debito in tre fasi, per un totale di 2.400 miliardi di dollari (400 miliardi subito, 500 miliardi nel corso dell’anno e altri 1.500 fino alla fine del 2012; gli ultimi due sono soggetti a un voto di sfiducia del Congresso, che non invaliderebbe l’aumento ma imporrebbe una nuova approvazione da parte di Obama). È prevista una riduzione del deficit di uguale misura (2.400 miliardi) nel corso di dieci anni e in due fasi (900 miliardi la prima, 1.500 miliardi la seconda), con la creazione di una speciale commissione congressuale bipartisan incaricata di delineare i tagli da fare nella seconda fase. Qualora la commissione fallisse, scatterebbero tagli automatici per 1.200 miliardi, la metà  dal settore difesa e la restante parte dagli altri settori, a cominciare dalla Social Security e Medicaid.
C’è sollievo per l’accordo raggiunto, ma non mancano i «mal di pancia» di parecchi parlamentari Usa sia repubblicani che democratici: la sinistra del partito democratico, ma anche esponenti della destra anti-tasse che fa riferimento al Tea Party che premevano per varare una norma costituzionale sull’obbligo di pareggio del bilancio. Tra i democratici, Nancy Pelosi, capogruppo dei democratici alla Camera: non ha voluto fare previsioni sull’esito del voto e ha dichiarato: «esaminerò la proposta legislativa col mio gruppo parlamentare, per vedere quale livello di sostegno possiamo raggiungere». In realtà  questa appare come una dichiarazione molto di maniera per conquistare posizione all’interno del partito perché è certo che i democratici sanno che l’accordo al ribasso raggiunto è l’ultima sponda per cercare di rivincere le elezioni presidenziali del prossimo anno.
Da sottolineare che un feroce attacco a Obama è arrivato dal premio Nobel Paul Krugman che dalle colonne del New York Times critica i futuri tagli alla spesa pubblica, in un editoriale in cui accusa il presidente Barack Obama di essersi «arreso ai repubblicani». Per Krugman, l’economia americana è «molto depressa e continuerà  a esserlo il prossimo anno e probabilmente anche nel 2013. La cosa peggiore che si può fare in queste circostanze è tagliare la spesa pubblica».
Per quanto riguarda i repubblicani, Boeher, presidente della Camera, deve riuscire a convincere una buona parte dei suoi 240 deputati. Cosa non facile, vista l’opposizione del Tea Party, ma non impossibile. Anche perché i repubblicani sono riusciti a far ingoiare ai democratici una manovra economica fortemente restrittiva con tagli alle spese e senza nuove tasse. Di più: finora l’aumento del tetto del debito era una manovra di routine (utilizzato per una dozzina di volte da Regan, Bush padre e figlio) a questo punto la destra è riuscita a creare un precedente, trasformando in uno strumento di ricatto sul presidente. Occorre tenere presente, infatti, che il debito pubblico non si muove autonomamente, ma sulla base di leggi di spesa autorizzate dal Congresso. Per Obama il successo è stato unicamente quello di aver evitato il default e di aver imposto un negoziato che facesse l’interesse del paese e non quello dei due partiti.

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I VOLTI DEL «DEAL»

BARACK OBAMA L’annuncio con un video sul web 10 minuti prima dell’apertura della borsa di Tokyo e in attesa del voto del Congresso: «L’accordo ridurrà  il deficit ed eviterà  il default, che avrebbe avuto un effetto devastante sulla nostra economia». Harry Reid Un accordo «storico che mette fine a un’impasse pericolosa». Così il leader dei democratici nel Senato americano, autore della bozza d’accordo finale ha definito l’intesa bipartisan raggiunta sull’aumento del tetto del debito. JOHN BOEHNER «Non è l’accordo migliore del mondo – osserva lo speaker repubblicano della Camera, – ma mostra come i repubblicani siano riusciti a cambiare i toni del dibattito». La leader dei democratici alla Camera, Nancy Pelosi, si è riservata di decidere all’ultimo.


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