Il Cairo, così cade il «Faraone»

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IL CAIRO. Appena otto mesi fa Hosni Mubarak era uno dei leader più potenti del mondo arabo, forte della sua autorità  assoluta su cittadini-sudditi, dell’appoggio incondizionato dagli alleati americani e della stima degli israeliani. Un «faraone» a tutti gli effetti, pronto a dare inizio ad una propria dinastia. Era sul punto, di concerto con la moglie Suzanne e i membri più in vista del suo entourage e del partito (il Pnd), a passare lo scettro di presidente al figlio Gamal, senza averlo mai ufficialmente nominato suo delfino. Oggi Mubarak è solo un vecchio ammalato e abbandonato dai suoi amici generali che controllano l’Egitto. E’ solo l’ombra dell’uomo spietato e inflessibile che pur di rimanere in sella aveva ordinato di aprire il fuoco sulla sua gente in rivolta nei giorni insanguinati tra il 25 gennaio e i primi di febbraio.
Ieri sera un aereo militare ha provveduto a trasportarlo dall’ospedale internazionale di Sharm el Sheikh – dove è ricoverato da mesi – al Cairo e oggi, nell’Accademia di polizia a nord della capitale, verrà  processato per appropriazione di fondi pubblici e, soprattutto, per aver ordinato alle forze di polizia di sparare senza pietà  sui manifestanti. Sul banco degli imputati ci saranno anche i figli Gamal e Alaa. Le misure di sicurezza predisposte sono impressionanti. Oggi saranno dispiegati venti blindati, tremila soldati e poliziotti e un cordone di sicurezza verrà  allestito attorno all’Accademia di polizia. Posti di blocco sono stati eretti in vari punti del Cairo.
Fa caldo nella capitale e i ritmi sono più lenti del solito anche per il digiuno del mese di Ramadan. Ma l’attenzione verso il procedimento a carico dell’ex raìs è alta. Gli egiziani aspettavano da mesi questo momento, il processo a Mubarak e agli altri esponenti del suo regime era e rimane una delle richieste principali presentate al Consiglio supremo delle forze armate dai giovani della rivoluzione. Un avvocato, Nabih el Wahesh, ha suggerito di predisporre che la diretta televisiva del processo avvenga a pagamento. Lo Stato, ha calcolato el Wahesh, incasserebbe 10 miliardi di pound (oltre un miliardo di euro) tanto è forte l’attesa popolare. D’altronde vedere un leader arabo davanti ad una corte vera del suo paese non è cosa di tutti i giorni. Anche il presidente iracheno Saddam Hussein venne processato, ma si trattava di una farsa organizzata dall’occupante americano e dal compiacente governo locale al solo scopo di arrivare nel più breve tempo possibile a mettergli la corda al collo.
E se anche per Mubarak la sentenza fosse già  stata scritta? Non come per Saddam ma, al contrario, per condannarlo ad una pena lieve rispetto ai reati gravissimi dei quali è accusato e che prevedono l’impiccagione. Sono in tanti a temerlo in Egitto. A cominciare dai famigliari degli oltre 800 egiziani uccisi dal mitragliate della polizia durante la rivoluzione. «Aspetto questo momento da mesi, quell’uomo mi ha portato via un figlio, un ragazzo che come tanti altri scandiva solo slogan in piazza Tahrir. Voglio che venga condannato al massimo della pena per quello che ha commesso ma i giochi forse sono già  fatti a danno delle giustizia», diceva ieri Munir tra rabbia e commozione, riunito con altri parenti delle vittime davanti all’ufficio del Procuratore generale nella speranza di ottenere uno dei 600 permessi necessari per assistere al processo. Le indiscrezioni della vigilia riferivano ieri che i generali del Csfa hanno imposto a Mubarak di presentarsi in aula, anche a letto, pur di evitare le massicce proteste popolari che provocherebbe la sua assenza. In cambio avrebbero assicurato al suo avvocato – che in questi mesi ha descritto più volte Mubarak sul punto di morire – che il processo verrà  subito aggiornato.
Uno sviluppo lontano dal procedimento a tappe forzate annunciate dal giudice Ahmed Refat. Omar, un altro famigliare di un «martire» della rivoluzione, invece si diceva «fiducioso». «Non so come andrà  a finire ma vedere Mubarak, i suoi figli e amici di tre decenni di soprusi e corruzione nella gabbia degli imputati è già  un grande risultato», spiegava l’uomo.
Alla sbarra, accanto all’ex «faraone» , oggi ci saranno anche l’ex ministro dell’interno Habib el Adly, accusato con il raìs di avere ordinato la violenta repressione dei manifestanti a fine gennaio. Nella sala dell’Accademia di polizia, per ironia della sorte intitolata a Mubarak prima della rivoluzione, non sarà  presente invece il businessman Hussein Salem – fermato il mese scorso in Spagna e rilasciato su cauzione – accusato di malversazione e di scandali come quello della vendita sottocosto a Israele del gas egiziano. In ogni caso Gamal e Alaa, il figlio maggiore di Mubarak che secondo alcune ricostruzioni accusò il fratello di avere spinto troppo sulla linea dell’intransigenza provocando la caduta del raìs, dietro le sbarre hanno goduto sino ad oggi di non pochi privilegi, così come gli altri esponenti del regime. E’ una prigione de luxe quella in cui si trovano detenuti. Si chiama Tora e in genere accoglie vip. Nelle sue celle ci sono anche i ministri per l’edilizia Ahmed el Maghrabi, del turismo Zoheir Garana, dell’interno el Adly e l’ex potente affarista Ahmed Ezz che, insieme ad altre personalità  della politica e degli affari, avrebbero anche organizzato incontri di calcetto, arbitrati dall’ex premier Ahmed Nazif.
Una prigione ben diversa da quella in cui sono stati sbattuti un centinaio di manifestanti accampati in piazza Tahrir e sgomberati lunedì con la forza dalla polizia e che il Csfa ha definito dei «criminali». Rischiano processi davanti alle corti militari e anni di prigione. I centri per i diritti umani hanno chiesto la loro immediata scarcerazione. Tra i «criminali» anche una giornalista della Bbc, Shaimaa Khalil, arrestata nel luogo-simbolo della rivoluzione anti-Mubarak e scarcerata solo ieri sera.


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