Il Bus Force One Obama in viaggio per riconquistare gli americani
Più simile a un enorme furgone funebre che a un festoso messaggero di speranza, il «Bus Force One», il mostro nero su ruote che da due giorni viaggia fra le spighe del granoturco maturo trasporta nel cuore dell’America un Presidente Obama alla ricerca del proprio tempo perduto.
Non c’è nulla di nuovo né di straordinario in queste tournée su autobus che dal repubblicano Thomas Dewey nel 1948 a oggi, passando per i Bush, i Clinton, i McCain, la Palin, tutti i candidati alla Casa Bianca hanno utilizzato e che dovrebbe riportarli sulla terra per vedere gli Stati Uniti all’altezza del popolo del «Greyhound», dei trasporti più popolari ed economici in corriera. Ma è un segno dell’agitazione e delle difficoltà di questo Presidente sfiancato da un’estate orribile e da un odio schiumante dell’ultradestra il fatto che si debba tuffare già in campagna elettorale a quattordici mesi e mezzo dalle elezioni del 6 novembre 2012.
La finzione del viaggio ufficiale per spiegare agli americani la situazione economica, finanziaria e politica dopo il disastro della zuffa parlamentare sul debito e l’onta del declassamento proclamata dalla Standard & Poor’s, non ha ingannato nessuno, neppure i non molti fan che hanno accolto Obama alla sua prima tappa sul fiume Cannon, in Minnesota. Già la scelta di fare la prima sosta nella «tana della lupa», nel feudo di quella farneticante deputata Michelle Bachmann che è la nuova santa dei fanatici di ultra destra, svela la verità sul senso di questo tour.
La sequenza dei tre stati, Minnesota, Iowa per finire in Illinois, da dove partì nel febbraio del 2007 la sua storica corsa alla massima poltrona nazionale, è l’altro indizio rivelatore. Tutti e tre questi stati votarono per lui e lo Iowa fu il trampolino che lo lanciò all’attenzione nazionale con l’inattesa vittoria nei «caucus», nelle assemblee popolari, sulla Clinton sconfitta. Ora, mentre i sondaggi generali della Gallup lo danno al minimo storico di popolarità , il 39 per cento, Barack Obama sa che senza di loro, le sue possibilità di vittoria e di rielezione sono di fatto nulle.
Sorprende, conoscendo l’attenzione ai dettagli e la sensibilità al marketing politico dei consiglieri come il mago delle elezioni, Robert Gibbs, che per ripartire verso la Casa Bianca abbiano scelto questo gigantesco catafalco nero che le telecamere inquadrano mentre a stento affiora dai campi di altissimi girasoli e di mais nello «heartland», nel cuore agricolo degli Usa. Quel nero cupo che avvolge il «Bus Force One» ricorda il colore degli aerei e dei bombardieri invisibili ai radar, oltre che inconsciamente alludere al colore della pelle di un uomo che milioni di elettori, naturalmente proclamando sdegnati il contrario, non hanno mai accettato per la sua razza, prima che per le sue idee.
Ragioni di sicurezza, del tutto comprensibili, hanno suggerito la vernice cupa, meno vistosa di altre più gaie tinteggiature soprattutto nella notte, mentre corre da un paese all’altro e lui dorme nel lettone interno con toilette privata, ben diversa dai tormentosi seggiolini dei bus di linea e dalle fetide toelette chimiche nel retro del veicolo. Hanno imposto la blindatura dei finestrini, tutti chiusi, delle fiancate, per metterlo in grado di sopportare colpi di lancia granate, poi il massimo dell’isolamento «Abc», contro radiazioni atomiche, attacchi batteriologici e armi chimiche, grazie alla porta autosigillante e a un sistema di filtraggio dell’aria preso in prestito dai carri armati M1A1 e spiegano il costo di un milione e duecento mila dollari. Ma l’effetto visivo e psicologico di questo mostro cupo tra campi verdi e gialli è esattamente quello che Obama non voleva e che ha già sollevato il dileggio e il sarcasmo dei suoi avversari repubblicani. Di quel partito che ancora in primavera non riusciva a trovare un candidato serio disposto a immolarsi e oggi crede di potersi già dividere tra moderati, quasi estremisti e fanatici le spoglie della «speranza» appassita e del «change», del cambiamento obamiano avvenuto sì, ma in peggio.
Questa stagione buia dell’avventura obamiana simboleggiata dall’orribile «Obabus» che sembra venuto da «Mordor», come ha detto la Bbc inglese, dalla Terra Oscura di Tolkien, è il caso classico di un uomo che per lunghi mesi non riusciva a sbagliare nulla e che da qualche tempo sembra non riuscire a farne più una giusta, anche quando non è colpa sua. «È il momento della riflessione e della ragionevolezza, di fronte alle nostre difficoltà » predica serio, composto, razionale scendendo dal mostro su gomma e lasciando i propri fedeli con la bocca amara, loro che vorrebbero parole roventi alle quali scaldarsi, per opporle alle invettive della lupa del Tea Party, la Bachmann che vorrebbe «guarire i gay» e del temilbilissimo «neo Bush», il governatore del Texas Rick Perry, un mellifluo conservatore più digeribile, appena sceso ufficialmente in campo.
Pare quasi che abbia fretta, «the black man» sceso dal «black bus» nei suoi discorsi, che abbia una gran voglia di ricongiungersi alla moglie e alle ragazze Malia e Natasha a Martha’s Vineyard, la Portofino dell’Atlantico, oggi, e cominciare le vacanze estive per ripartire verso un autunno meno infernale. «Il Presidente non è ossessionato dalla propria rielezione» si è fatto sfuggire Robert Gibbs, il master della sua campagna elettorale e ai democratici è sceso un lungo brivido sulla schiena. Perchè proprio l’ossessione anti obamista è infatti la forza che sta mobilitando contro di lui la destra risorta e disposta a qualsiasi follia, anche al «default» nazionale, pur di «riprendersi l’America» strappandola a colui che essa considera un usurpatore alieno.
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