I servizi? piu’ li paghi e peggio ti servono

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Difficile da credere che la città  italiana dove la tassa sulla spazzatura è la più alta in assoluto sia proprio quella che ha più problemi con l’immondizia. Ma nel Paese dove il «capitalismo» municipale ha pian piano soppiantato il capitalismo di Stato, il sistema funziona così.
Palermo, per esempio. Secondo le elaborazioni dell’ufficio studi della Confartigianato, effettuate sulla base dei dati del ministero dello Sviluppo economico e dell’Unioncamere, è la città  dove il trasporto pubblico, pur non rappresentando sicuramente il massimo nazionale dell’efficienza, è invece mediamente più costoso: 515 euro per dieci abbonamenti mensili e 48 biglietti orari. Non c’è confronto con Genova (398), al secondo posto, ma nemmeno con Napoli (396), al terzo. Senza parlare di Milano: 338 euro, il 52,3% in meno.
La scarsa concorrenza
Del resto, prendendo in esame un pacchetto di servizi pubblici locali (oltre al trasporto anche i rifiuti, l’acqua e l’energia) proprio Palermo è la città  più cara d’Italia con l’unica eccezione di Cagliari (3.108 euro l’anno pro capite), che deve però fare i conti con l’estrema onerosità  della distribuzione del gas. Nel capoluogo siciliano ogni cittadino sostiene mediamente, dicono i dati del 2009, un costo di 2.633 euro l’anno, contro 2.559 di Genova e 2.537 di Napoli. A Milano si spende il 42,6% meno che a Cagliari e il 20,8% meno che a Palermo. Ancora più impressionante, tuttavia, è il peso della spesa pro capite sul Pil «individuale». Il costo dei servizi pubblici locali si «mangia» a Napoli il 16,1% del Prodotto interno lordo pro capite, contro il 6% a Milano, l’8,3% di Firenze, il 7,1% a Bologna, il 7,6% a Roma, che certo non è fra le città  meno care (2.461 euro).
Come si spiega tutto ciò? Che ci sia un rapporto fra questa situazione e le mancate liberalizzazioni, come sostengono da tempo autorevoli istituzioni, è assodato. L’Ocse sottolinea, per esempio, come il costo dei servizi pubblici cresca nettamente più del costo della vita. A giugno si è registrato per questi un rincaro del 4,8%, oltre due punti sopra l’inflazione. Fra il 2000 e il 2010 le tariffe dei servizi pubblici locali, escludendo quelli energetici, sono salite del 54,2% a fronte di una crescita dei prezzi pari al 23,9%. Ed è stato un aumento astronomico anche rispetto alla media di Eurolandia, dove l’incremento delle tariffe si è attestato invece al 30,3%.
La Banca d’Italia dice che nel nostro Paese i principali servizi hanno un cosiddetto «mark up», cioè la differenza fra il prezzo della prestazione erogata e il suo costo, superiore del 19,2% alla media dell’area euro. È ancora via Nazionale ad affermare in un proprio studio che riportando quel dato al livello europeo si potrebbe ottenere nei primi tre anni una crescita del Prodotto interno lordo pari al 5,4%. Stima che porta la Confartigianato a calcolare un Pil aggiuntivo di 36,7 miliardi per il solo primo anno seguente a quello nel quale fosse applicata una vera liberalizzazione di questo mercato.
Il caro bolletta
I dati della Banca d’Italia sul «mark up» sono eloquenti. Le aziende che erogano servizi pubblici hanno sulla carta profitti ben più elevati della media europea, sebbene parametri di efficienza e conto economico non siano certo migliori. Con tutta evidenza la causa va ricercata in un costo della politica indiretto che fa leva proprio sulla mancanza di concorrenza. La prova? Fra il 2003 e l’anno che ha preceduto la nuova Grande Depressione, le aziende pubbliche locali hanno letteralmente allagato l’Italia. Nel 2007 l’Unioncamere ne ha censite 5.152, numero superiore dell’11,9% a quello di quattro anni prima. In dieci anni, dal 1999 al 2009, le imprese controllate dagli enti locali, ricorda la Confartigianato, hanno raddoppiato il loro peso sull’economia, dal 2,3% al 4,6% del Prodotto interno lordo. Tutto questo mentre la spesa delle amministrazioni scendeva dal 5,8% al 5,6% del Pil.
La crescita si è rivelata particolarmente impetuosa al Nord e nelle Regioni autonome. Nella provincia di Trento le aziende pubbliche locali rappresentano ormai il 13,3% al Prodotto interno lordo, avendo aumentato in un decennio il proprio peso di ben 8,6 punti. In Valle D’Aosta il loro contributo all’economia ha raggiunto l’11,3% (+8,3 punti), in Liguria l’8,2%, nel Friuli-Venezia Giulia l’8,2%, nella Provincia di Bolzano il 7,2%, in Emilia-Romagna il 6,9% e in Lombardia il 6,1%.
Un monitoraggio compiuto dall’Unioncamere su 4.018 di queste aziende, escludendo quelle finanziarie e in liquidazione, ha dimostrato che nel Centro Nord ognuna di esse ha chiuso il bilancio con un utile medio di 368.746 euro, contro un buco medio di 251.424 euro al Sud. E se nel Centro Nord gli utili per addetto sono cresciuti, nel quadriennio preso in esame, di ben tre volte, passando da 2.147 a 6.500 euro, nelle Regioni meridionali il deficit pro capite si è ampliato del 14,7%, da 2.822 a 3.239 euro. Il fatto è che mentre le aziende pubbliche locali del Sud aumentavano del 14,6% il costo del personale anche a causa di tre assunzioni in media per impresa, le loro consorelle centrosettentrionali lo diminuivano del 5,8%, grazie pure all’esodo medio di 9 addetti. Il clientelismo c’entra forse qualcosa? Giudicate voi.
E l’efficienza? Lo studio della Confartigianato segnala il caso del trasporto pubblico locale, dove il costo medio per un chilometro di percorso urbano raggiunge in Campania 7,14 euro, 2 euro e 39 centesimi più della Lombardia, 3 euro e 8 centesimi più del Veneto e quasi il quadruplo rispetto all’Umbria. Numeri con un chiaro riscontro nel chilometraggio medio di ogni autista: 19.086 in Campania, 25.032 in Lombardia, 27.278 in Veneto, 43.255 in Umbria. Caso particolare, il Lazio, dove il costo per chilometro è appena inferiore a quello campano (6 euro e 68 centesimi) pur con un chilometraggio pro capite (26.513) superiore alla media nazionale. Cifre riferite al 2009, che evidentemente fotografano lo stato della gestione dell’Atac: al 31 dicembre di quell’anno l’azienda romana aveva accumulato un buco di circa 700 milioni di euro.
Dal 2004 al 2009 alla crescita dei fatturati dei servizi pubblici locali non ha poi fatto riscontro un incremento degli investimenti. Diminuiti, anzi, dal 20,3% al 18,1% del giro d’affari. Un quarto circa degli stanziamenti viene assorbito proprio dal settore dei trasporti, che è al secondo posto. La maggior parte dei fondi, poco meno del 33%, è infatti destinato al servizio di distribuzione dell’acqua, bandiera dell’ultimo referendum sui servizi pubblici locali che ha registrato una schiacciante maggioranza di no alla privatizzazione.
Lo spreco di risorse idriche
Ma per quanto siano percentualmente rilevanti, come stanno a dimostrare i dati pubblicati dalla Confartigianato, gli investimenti non riescono a modificare sostanzialmente una situazione davvero disastrosa: combinato disposto di una rete colabrodo e un’evasione tariffaria in alcuni casi allucinante. Almeno se è vero che nel 2008 a fronte di oltre 8,1 miliardi di metri cubi immessi nella rete di distribuzione, quelli fatturati sono stati poco più di 5 miliardi e mezzo. Il 32% dell’acqua potabile, quantità  che il rapporto dell’organizzazione degli artigiani paragona alla portata annuale del fiume Brenta, si volatilizza letteralmente.
L’elaborazione contenuta in quello studio, fatta sulla base dei dati Istat, mostra come ancora tre anni fa in Puglia per ogni 100 litri di acqua «erogata», se ne immettessero nella rete ben 87 di più. Non molto meglio andava in Sardegna, con 85 litri, in Molise (78), Abruzzo (77) e Friuli-Venezia Giulia.
Nel 2009 questo andazzo è costato alle aziende locali che gestiscono il servizio idrico 2 miliardi e 947 milioni. Più dei soldi cui i Comuni hanno dovuto rinunciare a causa dell’abolizione dell’Ici sulla prima casa decisa dal governo di Silvio Berlusconi subito dopo le elezioni del 2008, più del giro di vite di 2 miliardi e mezzo imposto ai municipi dalla manovra dello scorso anno, più dei tagli lineari ai ministeri….
I «black out» senza preavviso
Che l’efficienza dei servizi pubblici locali non sia al top lo affermano poi gli stessi utenti. La percentuale di famiglie «molto o abbastanza soddisfatte» della loro qualità , sulla base delle statistiche ufficiali dell’Istat, è scesa fra il 2001 e il 2010 di 5,1 punti per l’energia elettrica, del 3,5% per il gas. Letteralmente precipitato l’indice che segnala la soddisfazione per la «comprensibilità » della bolletta, calato del 12,9% relativamente al gas e del 10,3% alla luce. Non bastasse, le rilevazioni dell’Autorità  per l’energia informano che per 18 aziende su 32, ovvero il 56,3% del totale, l’indice di «qualità  totale» rilevato presso i call center nel 2010 ha registrato un peggioramento.
Per non citare la vicenda mai risolta delle interruzioni «senza preavviso» di energia elettrica, il cui livello medio ha raggiunto, sempre nel 2010, ben 89 minuti l’anno, dei quali 44 per responsabilità  delle imprese distributrici. E va detto che al Sud i 44 minuti diventano ben 63, contro i 29 del Nord. Per le piccole imprese fino a 20 dipendenti è un inconveniente costato lo scorso anno, secondo la Confartigianato, un miliardo e 56 milioni di euro.


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