I ribelli battono cassa, chiedono 2,5 miliardi cash
La guerra è stata fatta per motivi puramente umanitari. e guai a voi se ne dubitate. I più malevoli possono anche pensare che c’entri qualcosa il petrolio (produzione: 1,6 milioni di barili al giorno, in condizioni normali), ma nulla di più. Poi, come ieri, i «ribelli» si riuniscono a Doha, nel golfo persico, per cercare di sbloccare i «fondi sovrani libici» in giro per il mondo. O almeno 2,5 miliardi cash, per pagare subito «gli stipendi» del governo in pectore e varie altre spese in un paese spianato dai bombardamenti.
La Svizzera ha già fatto sapere di essere pronta; manca solo il via libera del Consiglio di sicurezza dell’Onu – che ha «congelato» all’inizio della guerra tutti fondi risalenti a Tripoli. Ma a Berna pensano che si tratterà di una cosa abbastanza rapida. Non appena arriverà il via libera, i conti torneranno attivi e a disposizione dei «legittimi proprietari», che nel frattempo saranno nominati dal «nuovo governo». Un castello assai complicato, e che naturalmente non è facile «restituire» senza qualche resistenza da parte dei «detentori». Ma Mahmou Jibril, presidente esecutivo del Cnt, ha chiesto di reperire la cifra minima necessaria entro la fine del Ramadan, da qui a pochi giorni.
I soldi di Tripoli in giro per il mondo non sono spiccioli. nel 2004 Gheddafi era stato depennato dalla lista degli «stati canaglia» (e allora c’era Bush, non certo un estimatore). La Libyan Investment Authority (Lia) ha preso a manovrare un surplus annuale da oltre 30 miliardi di dollari provenienti dalle vendite di petrolio, e ben presto la cifra destinata agli investimenti stranieri è diventata davvero rilevante. Si parla di almeno 70 miliardi, ma dovrebbero essere molti più.
In gennaio, per esempio, il poco patriottico rappresentante della Lia, Mohammed Layas, ha avvertito – lo ricorda Wikileaks e il nostro Dinucci – l’ambasciatore Usa che il suo istituto aveva appena versato 32 miliardi di dollari nelle banche statunitensi. Un mese dopo venivano tutti sequestrati. Un furto con destrezza, prima della rapina a mano armata chiamata guerra.
Altri 45 miliardi sono certamente custoditi in banche europee – soprattutto francesi e inglesi (anche qui si potrebbe sospettare qualcosa…), per non parlare di decine di altri investimenti in un po’ tutto il mondo. Il caso italiano è stato al centro di troppe polemiche per parlarne ancora in modo diffuso. La partecipazione libica in Unicredit, che è costata la poltrona di a.d. ad Alessandro Profumo, pesa per il 7,5% della banca (oltre 1,5 miliardi, ai valori di ieri). Partecipazioni importanti ci sono anche in Finmeccanica (2%), Eni (1%) e –da sempre – nella Juventus (7,5), mentre l’uscita da Fiat (su pressioni di Reagan) risale al 1986.
Oltre alla Lia opera in giro per il mondo anche la Banca centrale, anche se non sempre in prima persona. per esempio, in Italia ha preso il 60% della Arab banking Corporation, con sede al centro di Milano. Altrettanto pesante la presenza in Tamoil e nel gruppo Olcese. Molte delle partecipazioni sono però difficile da ricostruire, perché di piccole dimensioni ed effettuate attraverso «società veicolo» per nulla trasparenti; un tempo lo facevano per aggirare l’embargo usa, poi si son trovati meglio «nell’ombra». Tarak Ben Ammar è dovuto più volte intefvenire pubblicamente per ridimensionate la partecipazione libica in Mediaset.
in Francia è presente con 10% in Quinta Communcations, ma anche in Lagardere, Edf, Alcatel, Bnp paribas. Negli Stati uniti – dopo la fine dell’embargo – la lista è praticamente infinita: dalla famigerata Hallyburton alla Xerox, ad Honeywell, Exxon, Chevron e Pfizer. In Inghilterra hanno un socio libico governativo anche imprese strategiche come Glaxo, Shell, Vodafone, British Petroleum. E non si sono fattti scappare i buoni affari in Germania (Siemens), Russia (Rusal e Norilsk), Spagna (Repsol), Svizzera (Nestlè).
Il trattamento riservato ai fondi libici apre però una partita pericolosa con gli altri «fondi sovrani» di paesi «non pienamente democratici» operanti sui mercati di tutto il mondo. La cautela sarà da domani ancora maggiore per i cinesi, Singapore (il potentissimo Temasek) e naturalmente per tutti – nessuno esluso – i fondi dei paesi del Golfo. Perché una monarchia, per quanto «petro», non è democratica per definizione. O no?
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