Gli ultimi della classe
PECHINO.Varcare il cancello della «Jing Wei» è un po’ come entrare in un’oasi. Tre edifici di mattoni a due piani attorno a un cortile dal pavimento sconnesso con canestri da basket troppo alti per i suoi scolari (da 4 a 14 anni), l’istituto è «nella top 20 delle scuole per migranti», sottolinea Zhang Zhiqiang, dell’organizzazione non governativa «Migrant workers’ friend». Ma la Jing Wei è circondata dalle baracche di Lu Cun, un’area della periferia nord-occidentale di Pechino dove migliaia di lavoratori arrivati da Hebei, Henan e altre province della Cina vivono ai margini di strade non asfaltate, tra discariche abusive e miasmi di cumuli d’immondizia in putrefazione.
Gli 800 bambini della Jing Wei l’altro ieri hanno iniziato il semestre dando il benvenuto a decine di nuovi compagni, rimasti nei giorni scorsi senza banco dopo che le autorità avevano decretato la chiusura di 24 scuole private riservate ai figli dei migranti. Agli istituti, che accoglievano 14 mila alunni, sono stati apposti i sigilli perché «sprovvisti di autorizzazione» o con «standard di sicurezza insufficienti». «Una giustificazione poco convincente – puntualizza Zhang -: tra quelli chiusi ce n’erano di attivi da più di dieci anni e alcuni in passato avevano già ottenuto il benestare governativo».
Yang Tuan, preside nel distretto meridionale di Daxing, ha raccontato al Beijing News un decennio di inutili tentativi di ricevere la certificazione. Per essere a norma le strutture devono misurare minimo 15mila metri quadrati e avere uno spazio all’aperto di almeno 3.587 metri quadrati, oltre a una pista per lo sport di 200 metri. «Nessuna scuola privata per migranti soddisfa questi criteri» ha concluso Yang.
Pressate dalle proteste di genitori e associazioni, le autorità comunali hanno promesso che «nessuno resterà senza istruzione»: i 14mila senza banco verranno risistemati nelle scuole pubbliche. Ma le ong denunciano che ai parenti viene richiesta una lunga serie di documenti «impossibili» tra cui il permesso di lavoro, di cui loro – ambulanti, auto-impiegati, comunque «irregolari» – sono sprovvisti. Le alternative? Rivolgersi a un’altra privata più lontana da casa (magari legale come la Jing Wei) o spedire i piccoli dai nonni nel paese d’origine, una separazione forzata da mamma e papà alla quale sono già stati costretti decine di migliaia di bambini.
Se in occidente «privata» è sinonimo di «ricca», a Pechino (e nel resto della Cina) spesso è vero il contrario. La prima scuola per migranti fu fondata nel 1992, a tenere le lezioni – in mezzo ai campi – erano allora gli stessi genitori degli alunni. Oggi nella capitale sono circa 200 gli istituti riservati ai figli di quell’esercito di oltre 200 milioni di persone che costituisce ormai metà della forza lavoro del Paese. Tra questi soltanto 63 hanno ottenuto l’approvazione delle autorità . Sugli altri incombe la minaccia della chiusura o, come accaduto alla «Hongxing Zidi» nel distretto di Haidian e ad altre strutture, della demolizione con i bulldozer.
«Lo Stato dà alla scuola privata 160 yuan all’anno per ogni piccolo migrante iscritto, mentre agli istituti pubblici versa tra i 7.000 e i 14.000 yuan a studente – protesta Zhang -. Gli standard insufficienti con cui motivano le chiusure derivano proprio da questa disparità di trattamento». A mezzogiorno i bambini escono dalle classi e, in fila sotto lo sguardo vigile delle maestre, si dirigono al refettorio. Anche il pasto si paga, 5 yuan al giorno. La retta è di 600 yuan a semestre. E le insegnanti sono tutte neolaureate che si fanno le ossa in attesa di passare alle scuole pubbliche.
Le scuole private per migranti sono figlie dell’hukou, il permesso di residenza permanente da anni oggetto di critiche severe e qualificate, sottoposto a parziali modifiche ma tuttora intatto nelle fondamenta. Introdotto da Mao nel 1958 come strumento di pianificazione economica (per limitare gli spostamenti dalle campagne alle città ), l’hukou prevede l’obbligo per ogni cittadino di registrarsi come residente urbano o rurale. Il permesso per una determinata città /villaggio, dà diritto a usufruire soltanto lì dei servizi essenziali quasi gratuitamente. A causa di questo sistema milioni di migranti che da anni lavorano e pagano le tasse nelle metropoli vengono trattati come cittadini di serie B. Secondo l’ufficio centrale di statistica di Pechino, gli abitanti della capitale hanno raggiunto quota 19,6 milioni (+44,5% rispetto al 2000). In questa cifra rientrano 249 mila persone tra 6 e 14 anni che non hanno l’hukou, il 28% del totale degli sprovvisti, un aumento del 19% rispetto al 2000.
Hou, 40 anni, è arrivata a Lu Cun nel 1994 dalla Mongolia interna e ha trovato lavoro in un supermercato. «Facevo la contadina, avevamo un grosso appezzamento – ricorda la donna – coltivato a patate. Cosa mi ha spinto qui? La povertà : il mio stipendio di 2000 yuan al mese (poco più di 200 euro) equivale a otto volte quello che riuscivo a mettere da parte a casa». Il marito fa l’autista e la piccola Zheqing, undici anni, è iscritta alla Jing Wei. Hou assicura che la mancanza dell’hukou per la sua famiglia non rappresenta un grosso problema: «Ad alcuni servizi contribuisce la danwei (unità di lavoro), c’è il supermarket, per le cure ospedaliere lo Stato rimborsa il 60%». Ma la signora giudica ingiusto che «i nostri stipendi sono ancora troppo bassi rispetto a quelli degli altri cittadini».
I migranti sono una presenza costante anche nel cuore di Chaoyang, il quartiere a nord-est di Tiananmen dove vive la maggior parte degli occidentali e i nuovi ricchi pechinesi affollano i negozi delle grandi griffe. Li vedi pedalare lungo i viali alberati mentre trasportano nelle discariche quintali di cartoni affastellati sui loro carretti. O sugli ampi marciapiedi dove a tarda sera servono spiedini e verdure alla griglia. O, operai negli onnipresenti cantieri edili, che entrano ed escono da prefabbricati pieni di letti a castello.
L’artista e attivista Ai Weiwei li ha descritti così sul numero in edicola del settimanale Newsweek: «Ogni anno a milioni arrivano a Pechino per fabbricare ponti, strade e case. Ogni anno costruiscono una nuova Pechino delle dimensioni che la città aveva nel 1949. Sono gli schiavi di Pechino. Occupano strutture illegali, che Pechino distruggerà mentre continuerà a espandersi».
La 32enne Qiu è a Lu Cun dal 2003, quando fu licenziata dalla scuola dove insegnava nella città di Hu Lunbeier. Lavora saltuariamente come domestica: «Guadagno quanto guadagnavo il Mongolia, ma qui i prezzi sono molto più alti». È preoccupata per il futuro di Yueyun, sette anni: se, dopo essersi diplomata alla Jing Wei, vorrà entrare alla scuola superiore, gli esami di ammissione dovrà sostenerli obbligatoriamente al paese d’origine e in seguito le sarà impossibile accedere a una buona università . «Lo scorso inverno la bambina si è ammalata tante volte e abbiamo speso oltre 2000 yuan per le sue cure mediche». Yueyun, Qiu e suo marito abitano in una stanza di 9 metri quadrati nella quale hanno fatto stare il letto sul quale dormono tutti assieme, il televisore, il computer, il ventilatore, la scrivania pieghevole per la bambina e un soppalco su cui sono ammassate alla rinfusa tutte le loro povere cose. Doccia, gabinetto e fornelli sono all’esterno, nel vicolo.
Tutt’intorno i palazzoni di 20 piani della nuova classe media, saliti negli ultimi tre anni da 8 mila a 20 yuan al metro quadro. «L’amministrazione spera di attrarre in città un maggior numero di persone istruite. Vogliono rispedire i bambini a casa – riflette Zhang – sperando che i genitori li seguano. Ma non funzionerà : per ogni migrante che tornerà indietro ce n’è uno con le valigie già fatte, pronto a un’esistenza di seconda classe nella metropoli pur di lasciarsi la miseria alle spalle».
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IL CASO/ Sono i protagonisti degli «incidenti di massa»
«Poveri di città », cova la rabbia tra 50 milioni di ex miserabili
Con le aperture di Deng, 400 milioni di cinesi uscirono dalla miseria. E ora sono «impoveriti»
PECHINO
Da quando, nel 1978, Deng Xiaoping avviò il programma di «riforme e apertura», oltre 400 milioni di cinesi sono stati portati al di sopra della soglia di povertà di 1 dollaro al giorno e l’economia ha fatto registrare tassi di crescita annua superiori al 9%, più di qualsiasi altra potenza mondiale. Con l’urbanizzazione che rappresenta un fenomeno ancora attuale (il paese ha una percentuale di residenti in città ancora modesta rispetto alle nazioni a capitalismo avanzato) l’attenzione degli studiosi e del Partito comunista (Pcc) si sta spostando, almeno in parte, dai poveri nelle campagne a quelli delle città . L’ultimo rapporto dell’Accademia cinese di scienze sociali (Cass) ha gettato una luce inquietante su questa seconda categoria, rilevando che circa 50 milioni di persone nelle metropoli sono «impoverite». Secondo il documento questa cifra non indica individui che vivono in assoluta povertà – come i poveri delle campagne – ma soggetti vittime dell’imperfezione dei programmi di welfare governativo in un paese per certi aspetti ancora in transizione da un’economia pianificata a quella di mercato.
Secondo Song Yingchang, direttore dell’Istituto di studi urbani e ambientali della Cass e autore della ricerca, i «poveri di città » sono classificabili in tre categorie principali: i lavoratori migranti arrivati dalle aree rurali, le persone che hanno perso il lavoro per effetto della transizione economica e i neolaureati che non riescono a trovare un impiego.
In base al 12° Piano quinquennale, tra il 2011 e il 2015 la Cina porterà la sua popolazione urbana dall’attuale 49,7% al 51,5% del totale. I dati di Song mostrano che ogni anno le città accolgono 10 milioni di persone provenienti dalle campagne, l’80% delle quali «impoverite». Il rapporto scrive che «sebbene ricevano sussidi e formazione professionale dai governi locali, essi sono soggetti a una crescente pressione psicologica e finanziaria, causata dall’allargamento delle differenze economiche e dall’aumento dell’inflazione».
Per quanto riguarda i neolaureati, l’aumento della disoccupazione «li fa sentire come abbandonati in un’era di rapida crescita economica». La ricerca punta l’indice contro le sperequazioni nel campo dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria e dell’occupazione, che hanno accentuato le difficoltà dei gruppi sociali che guadagnano meno e stanno causando situazioni allarmanti. Negli ultimi anni, evidenzia il documento, i cittadini nelle fasce di reddito basso hanno partecipato agli «incidenti di massa» «anche quando i motivi che li avevano ispirati non li riguardavano direttamente». Episodi (per «incidenti di massa» s’intende scioperi, manifestazioni violente e altre forme di protesta) «che hanno dato loro la possibilità di esprimere la loro rabbia nei confronti di un sistema dal quale non traggono beneficio».
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