Fondamentalisti e milizie di Al Qaeda così il Sinai è diventato una polveriera
Tanti elementi inducono a credere che l’attentato avvenuto ieri in Israele sia da collegare agli avvenimenti in corso in Egitto, dove la “Primavera araba” appare agitata e confusa.
Questo non significa che i rivoluzionari del Cairo siano da ritenere i diretti responsabili del più micidiale attentato da più di due anni, nello Stato ebraico. Non è quel che penso. Né sospetto. Ma la situazione che si è creata in Egitto potrebbe averlo favorito. Gli avversari della “Primavera araba” potrebbero essere proprio i promotori, e comunque sono loro che ne possono trarre profitto. Le vampate di terrore gettano il discredito sulla difficile, tormentata, svolta democratica, e ridanno fiato agli islamisti radicali, colti di sorpresa dall’insurrezione libertaria di piazza. L’accusa implicita, proveniente da schieramenti opposti, Israele compreso, è che l’Egitto non più guidato dalla mano ferma di un raìs, sia pure corrotto, non sia in grado di fermare l’islam radicale, e il terrorismo che ne deriva. I rapporti tra Il Cairo e Gerusalemme ne possono soffrire e la situazione mediorientale rischia di arroventarsi.
Oltre che il più micidiale, l’attentato è stato anche il più articolato, il più manovrato da tempo, perché condotto come un’azione di guerra. Bisogna tenerne conto. Dietro c’è un cervello “militare”. Si è svolto, stando alle prime ricostruzioni, in tre tempi e in quattro luoghi diversi. Il primo attacco è avvenuto in un’area scarsamente abitata, a ridosso del confine con l’Egitto, nel deserto del Sinai, quando un imprecisato numero di uomini armati ha aperto il fuoco su un autobus israeliano. Poco dopo gli aggressori hanno sparato un missile anti-carro contro una automobile privata. Poi sono state fatte esplodere bombe sulla strada dove si trovavano dei soldati, in prossimità dell’autobus assaltato, e forse sul punto di dare manforte. Il primo bilancio, quattordici morti, sette per parte, e una quarantina di feriti tra gli israeliani, è quello di una battaglia. Una battaglia che si è svolta al confine tra Israele e l’Egitto, una zona di importanza strategica, nei paraggi della stazione balneare di Eilat, sul Mar Rosso. E’ gente di mestiere quella che ha agito. Gaza è li, a due passi, e subito gli occhi dei generali israeliani si sono rivolti a quella disgraziata, indomabile e inaffidabile Striscia di terra. Che ha finito col pagare, poiché la risposta israeliana si è abbattuta subito là , facendo un’altra manciata di morti.
Vista la situazione nella Penisola del Sinai ci si aspettava da tempo qualcosa di grave. I segni premonitori non erano mancati. Affaccendate nei problemi di politica interna, le autorità militari del Cairo hanno allentato negli ultimi mesi il controllo sulla penisola del Sinai. Restituito all’Egitto in seguito agli accordi di Camp David (1979), dopo la lunga occupazione israeliana, cominciata con la guerra dei Sei Giorni (1967), quell’ampio deserto è diventato se non proprio un’area di nessuno, dove tutti possono scorrazzare, perlomeno una zona confinante non più tanto sicura per Israele. Di recente è stato attaccato un posto di polizia nella città egiziana di Al Arish. E gli autori sono stati descritti come seguaci dell’ideologia di Al Qaeda, se non addirittura affiliati a quell’organizzazione terroristica, dopo la morte di Bin Laden guidata da un egiziano, il dottor Ayman al Zawahiri, già promotore di attentati in patria, prima di raggiungere Ben Laden in Afghanistan. Sono stati inoltre ripetutamente sabotate le pipelines che riforniscono di gas le industrie israeliane.
L’accordo di Camp David limita il numero di soldati egiziani nel Sinai. La Penisola è divisa in zone, e su quella indicata con la lettera C, più vicina a Israele, se ne possono dispiegare meno che nelle altre. Ma il governo di Gerusalemme ha assecondato la richiesta del Cairo di aumentare la presenza militare di mille uomini, anche per consentire operazioni tese a ristabilire la sicurezza in tutto il deserto limitrofo allo Stato ebraico. Voci allarmanti circolavano da tempo, e, pubblicate dai quotidiani cairoti, non sono mai state smentite. Gruppi consistenti di fondamentalisti, almeno tremila guerriglieri provenienti dall’Afghanistan e dal Pakistan, si sarebbero infiltrati nel Sinai. Vera o falsa la notizia ha assecondato la psicosi provocata da chi è convinto, e vuol convincere, che l’Egitto d’oggi non sia più in grado di arginare l’ondata del fondamentalismo islamico, e il derivante terrorismo.
Un Egitto democratico sarebbe troppo incerto, caotico, per svolgere il ruolo di gendarme. Se si enumerano le forze politiche interessate a farlo credere si devono citare gli Stati sovrani, monarchie o repubbliche dispotiche, che temono il contagio della “Primavera araba”; e i partiti, le confraternite, le istituzioni destinate a vedere ridimensionato il loro potere con l’avvento di una democrazia. Gli stessi militari del Cairo, costretti a processare il loro capo, Hosni Mubarak, e a preparare libere elezioni, non sono al di sopra di ogni sospetto. Ravvivare il conflitto israelo-palestinese, o arabo-israeliano, è la strada più ovvia. Ed anche la più irresponsabile.
Il ministro della difesa Ehud Barak non ha avuto dubbi. Non li ama. Le informazioni in suo possesso gli hanno dato la certezza che i terroristi provenissero da Gaza. E ha subito promosso la rappresaglia. Il leader di Hamas, Salah El Bardawil, ha però negato che gli attaccanti appartenessero al suo partito o arrivassero dal territorio di Gaza. E anche il governatore egiziano del Sinai, Khaled Fuad, ha smentito con toni decisi che gli uomini armati siano sbucati dalle zone affidate al suo controllo. Il Sinai è dunque popolato di fantasmi. E il colpevole è l’Egitto avviato verso la democrazia e dunque incapace di mantenere l’ordine.
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