Emigrare in cerca di diritti

by Sergio Segio | 11 Agosto 2011 6:55

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Chi ci è passato racconta che la cosa peggiore è quel senso di frustrazione misto a rabbia che ti prende ogni volta che ci pensi. Tu hai bisogno di qualcosa e non puoi averlo perché qualcuno ha deciso che non ne hai diritto. Ha deciso per te, sulla base delle sue sole convinzioni personali e fregandosene della tua vita. Non importa che tu voglia avere a tutti i costi un figlio, oppure se hai bisogno di una terapia che qui, in Italia, è particolarmente difficile da avere. E non importa nemmeno se sei innamorato di una persona e non puoi sposarla solo perché è del tuo stesso sesso. Non parliamo, poi, se pretendi di voler decidere su quale sia il modo migliore per mettere fine alle sofferenze procurate da una malattia incurabile. Tutto quello che in altri paesi d’Europa è ormai un diritto acquisito, tanto che quasi non se ne discute nemmeno più, in Italia è vietato perché qualcuno, grazie solo alla maggioranza che ha in parlamento, ha deciso così, ha imposto la sua volontà  con leggi che sono vissute non solo come ingiuste, ma lontane anni luce dalla vita reale delle persone.
E allora scatta la frustrazione, perché non capisci per quale motivo lo Stato, che dovrebbe esserti vicino e aiutarti nei momenti difficili, è invece il primo a metterti i bastoni fra le ruote, il primo a renderti la vita più dura. «Siamo un paese in cui ormai non si può più vivere né morire, ma in cui non si può più nemmeno amare», dice Paola Concia, deputata del Pd che pochi giorni fa ha sposato in Germania la sua compagna sollevando per questo un mare di polemiche.
Se sei vittima di queste ingiustizie puoi provare anche un sentimento di rabbia, ma prima o poi scatta la voglia di riprenderti quello che consideri un diritto, visto che riguarda solo te e la tua vita. Allora cominci a guardarti intorno, a informarti. Parli con qualche esperto, consulti avvocati, medici, associazioni, senti gli amici. Non ti va di rinunciare (e poi perché dovresti farlo?) e alla fine prendi quella che ti sembra essere l’unica soluzione possibile: parti, cerchi all’estero quello che in patria ti viene negato.
Potrà  sembrare strano dirlo, ma siamo un popolo in fuga. Diversamente da quanto accadeva ai nostri padri, però, non partiamo alla ricerca di un lavoro, o almeno non solo di quello. Preso il coraggio a due mani abbiamo ricominciato a fare la valigia per cercare in Europa quelle possibilità  che qui, a casa nostra, ci vengono negate. Scopriamo così di essere ancora un popolo di emigranti, ma questa volta alla ricerca di diritti. E poco importa se stiamo parlando di qualche migliaio di persone, forse dieci-ventimila, costrette ogni anno a recarsi all’estero per tentare di avere un figlio grazie alle tecniche offerte dalla procreazione assistita, o magari per curarsi grazie all’assistenza offerta da un servizio sanitario straniero. Da quando in qua, infatti, i diritti sono tali solo se riguardano le masse? Non la pensa così Nadia Urbinati, docente di Scienze politiche alla Columbia university di New York. «Il diritto rappresenta sempre la difesa di una minoranza», spiega. «Quando una Costituzione elenca dei diritti, lo fa proprio per proteggere il singolo dal potere dello Stato. Questo pensiero liberale, laico, è difficile da affermare in Italia, dove ormai sembra che i diritti debbano rappresentare solo i privilegi della maggioranza».
Berlusconi, ma non solo
Venti anni di berlusconismo, ma anche di una sinistra a dir poco balbettante, hanno trasformato l’Italia in un deserto in cui è difficile non solo conquistare nuovi diritti civili, ma anche difendere quelli già  acquisiti. Con la conseguenza che chi può si industria per supplire da solo all’assenza dello Stato. La procreazione assistita è un esempio perfetto di questa ricerca di diritti negati. Dopo l’approvazione della legge 40 la Eshre, la società  europea di medicina della riproduzione, ha realizzato il primo e finora unico studio al mondo sulla migrazione per motivi riproduttivi distribuendo questionari ai pazienti dei centri di riproduzione assistita in Europa. L’indagine, del 2009, riguarda coppie etero e omosessuali, ma anche single desiderosi di avere un figlio. «In Europa sono circa 15 mila le coppie che ogni anno si spostano da un paese all’altro e di queste il 30%, cioè quasi 5.000, sono italiane», spiega Anna Pia Ferraretti, direttore scientifico del SisMR di Bologna, la Società  italiana studi di medicina riproduttiva. «La tipologia delle coppie cambia da paese a paese: mentre in Francia a emigrare sono soprattutto omosessuali, in Italia il 70% sono coppie sposate, il 25% conviventi e solo il 5% single o coppie gay. Prima che intervenisse la Consulta, la legge 40 ha sicuramente rappresentato un impulso per le coppie in età  media non elevata a emigrare per avere un figlio. Solo nel 5-6% dei casi l’età  media della donna è infatti superiore ai 44 anni, il resto sono coppie in normale età  riproduttiva».
Chi va all’estero lo fa per poter avere una diagnosi genetica preimpianto, per sottoporsi alla fecondazione eterologa oppure, in passato, perché la legge 40 consentiva al massimo l’impianto di tre ovociti. I principali paesi scelti sono invece la Spagna, considerato quello con maggiore esperienza per la fecondazione eterologa, la Svizzera, per l’eterologa maschile, oppure il Belgio. Una decisione che include anche un impegno economico che a volte può essere notevole. Il costo medio di una donazione di ovociti si aggira infatti intorno agli 8 mila euro, soldi ai quali vanno aggiunte le spese di viaggio, vitto e alloggio. Un prezzo che non tutti possono permettersi. «Lo Stato discrimina i cittadini su base economica e culturale», prosegue Ferraretti. «Qui si tratta di una necessità , che comporta un vero e proprio investimento, di vita ed economico».
Per fortuna non tutti si comportano come l’Italia, anche perché è stato calcolato che ogni nuovo nato darà  alla società  vantaggi economici notevoli. «In Danimarca questi conti li stanno già  facendo, al punto da incentivare la fecondazione assistita per coppie infertili con 6 cicli gratuiti. E già  oggi 6 bambini su 100 nascono grazie a queste tecniche», conferma Ferraretti.
Vivere in clandestinità 
Voglia di un figlio, ma non solo. C’è anche chi, per potersi curare, è costretto a sopportare lunghe e complicate procedure burocratiche. O, peggio, a rischiare di finire in carcere. E’ il caso di Andrea Triscivoglio. Malato di sclerosi multipla, 33 anni, trova un aiuto notevole nell’uso della cannabis. «Ha la proprietà  di distendere l’ipertono, la rigidità  muscolare, permettendomi così di camminare», spiega. Visti gli effetti benefici sulla malattia, nel 2008 Triscivoglio pensò bene di coltivare la cannabis in modo da poterne avere una scorta in casa per uso terapeutico. Sulle esigenze di cura, prevalse però il proibizionismo ideologico nei confronti delle droghe, comprese quelle leggere. E infatti venne indagato, anche se poi il caso venne archiviato dalla magistratura. «Per chi come me è affetto da malattie particolari, in Italia è impossibile curarsi», spiega oggi Triscivoglio. «Molti malati hanno problemi psicologici legati proprio alla condizione di illegalità  in cui sono costretti a vivere».
In Italia sono almeno un centinaio le persone malate di varie patologie (dalla sclerosi multipla al tumore, dall’Hiv al glaucoma) che utilizzano la cannabis come terapia. Nel 2007 un decreto dell’allora ministro della Sanità  Livia Turco inserì anche la cannabis tra i farmaci importabili dall’estero, senza però che questo semplificasse la vita dei malati. «Per avere la terapia gratuitamente devi farti ricoverare in ospedale, altrimenti paghi», prosegue Triscivoglio. La cannabis si assume in due modi: per via polmonare (aerosol) o bevendola in tisane, a prezzi tutt’altro che economici. Una confezione da 5 grammi costa intorno ai 48 euro, più 40 euro di spese contrattuali, più 120 euro per l’importazione del farmaco dall’Olanda, dove è prodotto dalla Betrocan. «E dire – conclude Trescivoglio – che a Rovigo c’è un centro per la produzione e ricerca della cannabis, che ogni mese viene bruciata. Cannabis preziosa per centinaia di persone».
Ma come si è arrivati a questo stato di cose? Perché chi è malato o ha un problema, può contare solo su se stesso? «Si è persa l’idea dell’interesse generale», risponde Urbinati. «Su tutto ormai prevale una visione privatistica della politica e questo accade sia nel movimento berlusconiano, sia nella Lega: entrambi si muovono in difesa di diritti privati o di territorio, che prevalgono su tutto il resto. E allora per loro perché la minoranza deve godere di diritti?».
E’ quasi come se negli ultimi venti anni si fosse messa in atto un’azione lenta ma costante di perdita di coscienza. La tesi della Urbinati trova d’accordo anche la deputata del Pd: «C’è stato un restringimento costante dei diritti e delle libertà , e nessuno ha detto una parola», prosegue infatti Paola Concia. «Ci siamo concentrati sul governo Berlusconi, sulla sua persona, e intanto lui ha continuato a fare il suo lavoro, a restringere sempre più gli spazi di tutti».
La legge sul testamento biologico, approvata dalla Camera il 12 luglio scorso da una maggioranza allargata per l’occasione all’Udc, rappresenta bene la distanza sempre maggiore che separa ormai il palazzo della politica dalla società . E impone ai cittadini perfino il modo in cui devono morire. Nonostante le accuse della maggioranza, la possibilità  di scegliere quando mettere fine alle sofferenze provocate da una malattia incurabile non ha niente a che vedere con l’eutanasia eppure, paradossalmente, prima la discussione e poi l’approvazione della legge (attesa adesso dal Senato per la terza lettura) hanno avuto come effetto quello di far aumentare le richieste di suicidio assistito. «Il trend annuale delle iscrizioni alla nostra associazione negli ultimi sei mesi è aumentato dal 200%, facendo registrare 280 nuovi iscritti dal 1 gennaio» conferma Emilio Coveri, presidente di Exit Italia, consorella della associazione Dignitas che a Zurigo aiuta le persone malate terminali a mettere fine alla propria vita. Negli ultimi sette anni sono stati ben 300 gli italiani che si sono recati in Svizzera per morire. L’età  media era compresa tra i 68 e i 70 anni e il 60% erano donne. «Probabilmente la donna sa meglio dell’uomo cosa siano il dolore e le conseguenze di una malattia – spiega Coveri -. Molti erano affetti da sclerosi laterale amiotrofica, come Piergiorgio Welbi e Luca Coscioni, altri erano ammalati di tumore. Tutti comunque erano affetti da malattie incontestabili», prosegue Coveri che, pensando a quanto accade in Italia, trova «assurdo che sia un altro a decidere sulla mia vita». Exit Italia (www.exit-italia.it) si limita a trasmettere alla consorella svizzera le cartelle cliniche delle persone intenzionate a ricorrere al suicidio assistito poi è la sede di Zurigo, e in particolare una commissione medica, a decidere se accettare o meno la richiesta. E non è detto che accada sempre. «Su 1.480 domande pervenute nel 2010 in Svizzera da tutto il mondo – prosegue infatti Coveri – ne sono state accettate 800. Le altre 600 sono state rigettate perché la commissione le ha ritenute prive dei requisiti necessari».
E la sinistra sta a guardare
Via dunque, all’estero. In Francia, in Spagna, in Belgio, ma anche in Germania, Svizzera o Inghilterra. A Londra, ad esempio, si recano ancora molte donne che necessitano di un aborto terapeutico al secondo trimestre (nel 2010 sono state 145). Ma si fugge, per fortuna o purtroppo, anche per motivi lieti. Come ad, esempio, le centinaia di coppie omosessuali che ogni anno si recano in Spagna o in Olanda per sposarsi. Il tutto sotto gli occhi di una sinistra che ormai non sa più rappresentare le esigenze dei suoi elettori. «In Italia la sinistra ha delle responsabili evidenti, visto che ha sempre mostrato di considerare i diritti civili come un bene secondario rispetto a un altro», accusa Urbinati. «Anche in passato, quando si trattò di lottare per il divorzio o l’aborto, la sinistra ci arrivò in ritardo, tirata per i capello dal movimento civile – prosegue la politologa -. E oggi si pensa che questioni come la procreazione, o il matrimonio tra omosessuali, siano una questione che riguarda poche persone e non la maggioranza. Per di più prevale una sudditanza culturale nei confronti del mondo cattolico, come se poi fosse unito. Guarda caso, però, si guarda sempre al mondo cattolico espresso dalle forme più conservatrici, quelle meno rispettose dei diritti individuali». «La sinistra deve fare quello che non è stata capace di fare in questi anni, cioè di reagire», rincara la dose Paola Concia. «E’ arrivato il momento di dire agli italiani che paese vogliamo ricostruire dopo Berlusconi, un paese dove tutti possano vivere, morire e amare con dignità ».

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