Ecco i nuovi leader Ma sono affidabili?

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Le rivoluzioni possono sbandare o deragliare. Ne è consapevole il capo del Consiglio di transizione, Mustafa Abdul Jalil. A Tripoli riecheggiavano ancora gli spari e lui ha avvertito i suoi connazionali. Non è finita, ci sono molti rischi all’orizzonte. Ed ha fatto riferimento diretto «agli estremisti» che, in queste ore, potrebbero regolare i loro conti. Prima dando la caccia ai reduci del regime, poi con i loro compagni di avventura.
Le parole di Jalil richiamano la prima sfida. Quella dei radicali islamisti. Ve ne sono molti all’Est, ma anche all’Ovest. Alcuni sostengono che si sono rivelati tra i più tosti nei combattimenti e hanno dimostrato di essere ben inquadrati. Sono stati tirati in ballo anche per l’uccisione del generale Fattah Younis a Bengasi. Un caso irrisolto — tra sospetti e accuse di tradimento — che mostra il lato oscuro della rivolta. I duri e puri non accettano i compromessi. A loro non piacciono le aperture del Consiglio verso gli ex del regime. Jalil — che è stato ministro di Gheddafi — vuole evitare invece scenari iracheni, con epurazioni massicce. Ha ragione. Il paese non può permetterselo, serve la riconciliazione. In Libia ci sono poche istituzioni e tutti possono dare il contributo alla rinascita. Solo la famiglia della Guida va giudicata per i crimini compiuti durante il quarantennio gheddafiano. Una deriva islamista — anche se minoritaria — darebbe ragione alla profezia del caos di Gheddafi e a quanti, anche in Occidente, erano contrari alla guerra.
La seconda sfida viene dall’ala militare. I combattenti di Misurata hanno accusato quelli di Bengasi di aver fatto poco e non vogliono obbedire ciecamente al Consiglio. Anche i berberi, che hanno avuto un ruolo predominante nell’ultima fase, detteranno le loro condizioni. Difficile che il Consiglio possa ignorarle. È stato versato del sangue, ci sono dei martiri.
La terza sfida è più politica. Le operazioni belliche, almeno nella prima parte, hanno nascosto le differenti visioni. Oltre agli islamisti, sono molto attivi i Fratelli musulmani. Un piccolo aneddoto rivela sensibilità  diverse.
Un capo della Fratellanza ha chiesto di sostituire il nome della strada intitolata al presidente egiziano Nasser con quello di un giovane che si è fatto saltare davanti alla caserma di Bengasi. Una proposta sommersa da un coro di no e da qualche polemica. «Non potete dare lezioni a nessuno — hanno rinfacciato alla Fratellanza — Siete stati in trattative con il figlio di Gheddafi». Ci sono poi i nazionalisti — presenza fissa nel panorama arabo —, i socialisti e gli esuli abituati alla regole delle democrazie europee. Personaggi che affiancano i volti noti della rivoluzione. Come il premier ombra Mahmoud Jibril, un altro ex con ottimi contatti all’estero, e Ali Tarhouni, un professore di economia tornato dagli Usa e molto rispettato. Il giornalista Mahnmoud Shaman o il portavoce del governo Gogha. Figure che potrebbero essere solo dei traghettatori, sempre che riescano a superare l’ostacolo finale.
Gli osservatori internazionali se erano scettici sulle capacità  militari degli insorti sono molti cauti sulle prospettive politiche. E non da oggi. Dalla prima ora hanno avvertito sulle incognite del dopo. Tenere unito un fronte così variegato non è agevole. Qualcuno rimprovera la mancanza di trasparenza, altri i pericoli del trasformismo. Jalil manda segnali rassicuranti ma, nel contempo, minaccia di andarsene. Vuole che tutti si allineino per mantenere fede ad una mappa tracciata fin dalla primavera e racchiusa nella «Dichiarazione costituzionale». Trentasette articoli dove si spiegano le tappe e le linee quadro. Pluralismo, stato democratico, con la sharia (la legge islamica, ndr) «fonte principale di ispirazione per la Legge» dello stato. Un aspetto guardato con diffidenza dai laici. I nuovi dirigenti riconoscono il debito di riconoscenza verso la Nato, ma il loro rappresentante presso la Lega araba, Al Huweini, esclude che la Libia possa ospitare basi dell’alleanza.
Il Consiglio dovrebbe lasciare il potere ad un governo ad interim e verrà  eletta un’assemblea costituente. Quindi si passerà  alle prime elezioni libere sotto la tutela dell’Onu. Una scadenza che dovrebbe essere raggiunta entro 12-20 mesi. La comunità  internazionale ha già  dimostrato, con gesti concreti, di fidarsi del piano: 32 Paesi hanno riconosciuto il Consiglio. Ora Jalil e quanti condividono il progetto hanno la missione di tirarsi dietro i propri connazionali. E assicurarsi il pieno controllo su Tripoli e dintorni, annullando definitivamente la minaccia Gheddafi. Perché ogni fessura può diventare una frattura.


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