E la Cina alza la voce con gli Usa «Drogati dal denaro in prestito»

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PECHINO — Mai la Cina aveva attaccato con termini così duramente espliciti gli Stati Uniti sulle loro scelte economiche. L’America è «drogata di debito» . E deve usare «buon senso» per salvare se stessa e i suoi creditori. La requisitoria affidata all’agenzia Xinhua lascia da parte le cautele che tradizionalmente accompagnano Pechino quando deve valutare le scelte interne altrui: perché il declassamento degli Stati Uniti da parte di Standard &Poor’s non è materia esclusiva dell’America. Il debito che corrode la forza di Washington è una faccenda drammaticamente cinese.
La Repubblica Popolare ha investito (dati di fine maggio) 1.160 miliardi di dollari in bond del Tesoro statunitense e non può permettersi di vedere il proprio capitale sgretolarsi. «I bei tempi in cui lo Zio Sam poteva dilapidare» denaro sono finiti anche per colpa dei «poco lungimiranti giochini politici a Washington» . Dopo aver salutato con preoccupato gelo l’accordo al Congresso, ieri Pechino, «il maggior creditore dell’unica superpotenza mondiale» , ha reclamato «ogni diritto di pretendere ora che gli Stati Uniti affrontino i loro problemi strutturali del debito e garantire la sicurezza dei suoi investimenti in dollari» .
 L’America deve imparare a «vivere secondo i suoi mezzi» perché all’orizzonte incombono ulteriori «devastanti ridimensionamenti del rating» . La paura di aver infilato i propri soldi in un forziere in via di inabissamento non è solo cinese. La condividono molti Paesi dell’area asiatica, spesso con surplus commerciali con gli Usa che si traducono in abbondanza di dollari ora a rischio. Il Giappone da solo rispetto a Washington è creditore per 912 miliardi di dollari. È la Cina, però, che si fa interprete di un allarme condiviso. Mercoledì avevano parlato sia il governatore della Banca centrale Zhou Xiaochuan («gli Stati Uniti agiscano negl’interessi propri e del mondo intero» ) sia l’agenzia di rating cinese Dagong, che ha abbassato il rating del debito Usa da A+ad A (e che ieri ha fatto sapere di valutare la crisi statunitense più grave di quella nell’eurozona). Pechino vede materializzarsi un incubo che ha visto partire da lontano. Era il marzo di due anni fa quando il premier Wen Jiabao aveva alzato il dito alla fine dell’annuale liturgia parlamentare: «A dire il vero, un po’ allarmato lo sono…» .
Oggi la crisi americana promette guai a catena, a cominciare da un dollaro più debole che può spingere i prezzi dei beni di consumo e gonfiare un’inflazione che già  in giugno ha toccato il record di tre anni con il 6,4 per cento. Il rompicapo cinese, ora, sta nel diversificare il portafoglio delle proprie riserve (valutate sui 3.200 miliardi di dollari) senza azzardare harakiri, quale sarebbe una svendita di titoli Usa. È anche per questo che la Cina chiede che l’America e il dollaro accettino una sorta di supervisione internazionale, mentre torna l’idea di accantonare più o meno rapidamente il dollaro come valuta di riferimento internazionale: ne serve una «nuova, stabile e sicura» .
 Rivestirà  dunque un’importanza non rituale la visita del vicepresidente Joe Biden a metà  mese (altre tappe: Giappone e Mongolia), che a Pechino troverà  il nuovo ambasciatore Gary Locke, democratico, genitori entrambi cinesi. La questione del debito americano rischia di intaccare altri dossier delicati fra i due Paesi, dai rapporti con Taiwan al controllo dei mari. Questo sembra dire il comunicato di ieri, quando invita l’America a «sforbiciare le gigantesche spese militari» .


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