È allarme tra i padroni dell’acqua

by Sergio Segio | 19 Agosto 2011 6:30

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 Raccontano che nel mercato dei diamanti di Anversa basta una stretta di mano per concludere i migliori affari. Ci si guarda negli occhi, si soppesa il nome, si scruta – anche solo per un attimo – chi accompagna la tua controparte. Poi un sorriso, che vale più di un qualsiasi contratto firmato. In fondo guadagnare soldi è il secondo mestiere più antico del mondo, strettamente correlato al primo.

L’Italia è un paese in declino, sfibrato, deluso. Nulla a che vedere con l’enclave capitaliste del nord Europa, cresciute attorno ai grandi porti, sorrette dalle tradizioni borsistiche più antiche. Qui, per fare affari, prima ti informi su chi manda il tuo interlocutore. È il paese del padrinaggio, del «Mi manda Picone», o delle espressioni divenute ormai storiche «A Fra’, che te serve?». Imprenditoria scaltra, dove i mediatori hanno in mano il vero ruolo. Le chiamano «P», con numeri che crescono marcando le legislature. Prima Gelli, poi Verdini, e, apparentemente ultimo, l’ex giornalista Bisignani. E alla fine quello che conta non è neanche il profitto, ma molto di più il potere. Siamo o non siamo il paese di Macchiavelli, dei Bravi manzoniani, delle Logge e delle associazioni segrete?
Ci sono crisi cicliche che poco hanno a che fare con l’economia reale. In questi momenti, in Italia, a ben guardare, si scopre che i lavoratori faticano di più, hanno meno diritti, sono la carne da macello da utilizzare come meglio conviene. Così era nel biennio 1992-1994, i due anni terribili che preparano l’ascesa di Berlusconi, ed oggi, con le tensioni finanziarie preparatorie per il passaggio del testimone. È il momento d’oro per i grandi mediatori, gli stakeholder del potere economico, i traghettatori e i timonieri abituati a lavorare sotto coperta.
Il quotidiano da svendere
Abbiamo un grande patrimonio, composto da una sessantina di milioni di clienti. È gente che ogni giorno ha l’abitudine di mangiare, consumare informazione televisiva, viaggiare, quando ci riesce. E bere. E produrre rifiuti. E tutte le sere accedere una lampadina, magari per leggersi un libro. A volte quei sessanta milioni di italiani si ammalano, il che è un gran bel business. Insomma, vivono, hanno un quotidiano che in qualche maniera va riempito. All’Italia economicamente in fondo è rimasto questo, dopo il decennio abbondante di governo delle destre.
All’inizio degli anni ’90, quando la lira era attaccata pesantemente dai fondi speculativi e il mondo politico crollava miseramente, fu quell’apparato dei grandi mediatori ad intuire l’opportunità . In realtà  il piano era iniziato dieci anni prima, quando al governo arrivò Bettino Craxi. Fu il governo socialista ad aprire al mercato la gestione del quotidiano, facendo crescere le grandi aziende che si occupavano dell’economia essenziale del paese. La Milano da bere del clan craxiano fu il primo laboratorio del modello di gestione dei servizi ambientali affidato a quelle stesse alleanze che oggi si preparano a gestire acqua, energia e rifiuti. Quando i vertici sono caduti sotto la scure di quella stessa magistratura che aveva scoperto e denunciato la prima «P» della storia italiana, quella di Gelli, sono entrati in azione i gregari. Fu il governo Amato, insieme a Draghi, a disegnare le prime grandi privatizzazioni, che sostituivano, con la forma della legalità , il sistema di potere attivo fino agli anni ’80. Acqua, rifiuti, energia: le tre chiavi che permettono di gestire il quotidiano di sessanta milioni di italiani.
2011, abbiamo un problema
Quindici anni di declino hanno avuto almeno un merito. La politica è diventata in buona parte impraticabile e creando una sorta di miopia da rifiuto. Conviene raccontare una piccola storia. Lontani dalle segreterie di partito un gruppo di genitori si incontrava davanti alla scuola dei figli, in una media città  della provincia di Latina. Difendere l’insegnamento pubblico è quell’esercizio di cittadinanza che capita alla gran parte degli italiani almeno una volta nella vita. Incontri, riunioni, piccoli comitati per cercare di dare un senso ai cinque anni d’insegnamento delle superiori, tra tagli, perdita di qualità  e strutture sempre più povere. Accade qualcosa, un fatto in fondo banale. In quella città  l’acqua viene ceduta ad una multinazionale francese, la Veolia, che fa entrare nel consiglio di amministrazione la peggiore politica locale. Scatta qualcosa, quei genitori che fino ad allora si occupavano della scuola dei figli guardano le bollette, dove il nome del comune era stato sostituito da una Spa. E capiscono che quella era la stessa battaglia condotta fino a quel momento.
Accade ad Aprilia, accade – in maniera diversa – in tante piccole città  d’Italia. Si sviluppa, in silenzio, quel senso di beni comuni che traduce e dà  spessore a quello stesso quotidiano svenduto un decennio prima. E’ un movimento talmente profondo che è in grado di portare, due mesi fa, al voto ventisette milioni d’italiani. Questo accadeva ieri, sessanta giorni fa.
Il cuore del sistema
Le multinazionali dell’acqua, dei rifiuti e dell’energia hanno una peculiarità . Non esistono società  con un parco clienti così vasto. In fondo sono uno stato. Hanno un’anagrafe dettagliata, forniscono servizi essenziali per la vita, riscuotono una forma di tributo. Usano la forza, quando serve, impedendoti di bere o di riscaldarti l’inverno. Possono bloccare una città , riempiendola di monnezza. Sono in grado di sedersi ai tavoli internazionali da pari a pari con i capi di stato. Il 14 luglio 2005 in Francia si festeggiava l’anno del Brasile; mentre l’allora presidente Lula abbracciava la folla festante, Dilma, all’epoca ministro d’alto rango, conversava con il management della Suez, per decidere gli investimenti, su acqua ed energia. Nella gestione del quotidiano della vita in Italia, c’è un mondo rovesciato. Chi decide è il privato, mentre il ruolo di sparring partner o di comprimario è affidato al politico. In Acea, ad esempio. In Acqualatina, in Publiacqua, in Calabria con la Sorical o in Sicilia con Sicilacque. E’ un sistema che quel voto di giugno ha deciso di abrogare. Per sempre.
Tornano i mediatori
I broker che negoziano il nostro quotidiano hanno bisogno d’incontrarsi, di respirare la stessa aria, di annusarsi. Per questo esistono le associazioni, le lobby, e, quando serve mantenere una certa discrezione, le Logge. Al governo normalmente si lascia l’ultima parte del lavoro, l’annuncio finale e la gestione del consenso. Passato il referendum in tanti si sono messi all’opera, cercando la soluzione migliore per difendere la sovranità  delle multinazionali. Subito si è messa in moto una sconosciuta associazione che riunisce quella parte del sistema che teoricamente doveva stare nella piazze a festeggiare la vittoria dei referendum, che restituivano dignità  e democrazia, la parte pubblica dei sistema di gestione dell’acqua. Si chiamano Ato, sono le autorità  che riuniscono i sindaci “proprietari” delle reti idriche. Eppure il 20 giugno, quattro giorni dopo i referendum, erano molto preoccupati. «Serve subito un intervento legislativo», hanno spiegato e non aveva certo l’intenzione di accogliere la scelta storica del voto. È stato un brulichio di incontri, di allarmi lanciati dai Cda, con Acea che, stizzita, dichiarava la voglia di non investire più sugli acquedotti. E poi, l’allarme, passato di bocca in bocca tra i gregari della politica e i mediatori del sistema Italia: «Qui si blocca tutto».
Che bel ferragosto
Serviva l’occasione giusta. Intanto occorreva aspettare il ferragosto e la chiusura dei programmi d’informazione della televisione pubblica, due eventi difficili da fermare in fondo. E poi la crisi, le borse che crollano, gli speculatori che gridano, le imprese che battono i piedi. Alla fine per questo governo – gestito dai peggiori gregari del craxismo, da Berlusconi a Cicchitto, dalla Bonniver a Brunetta, passando per Sacconi – è stato gioco facile infilare nella manovra la privatizzazione dei servizi locali. «Non l’acqua», assicurano. Ma i rifiuti, i trasporti, l’energia. Per ora si inizia così, poi vediamo. Per i servizi idrici in fondo i sistemi che il capitalismo misto all’italiana è in grado di scovare sono tanti: se gli stati privati come Veolia e Suez non possono sedere nei Cda, basta affidargli la gestione di settori strategici, come, ad esempio, la depurazione. Per ora può bastare, poi si vedrà . Nichi Vendola ha ieri definito questa manovra «un atto di guerra contro l’Italia». E in fondo ha ragione. Dobbiamo però aggiungere il nome di chi ha aperto l’offensiva. Le chiamano multinazionali e gestiscono il nostro quotidiano.

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