E adesso Barack scopre la paura

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Paralizzato da se stesso, distaccato, incassatore e sempre «cool», animale a sangue fin troppo freddo, al punto di sembrare, come ha scritto il Washington Post, «cold», gelido.
Si muove, agisce e parla a una nazione che vacilla nel panico come se non potesse credere che tutto questo stia accadendo a lui, a uno che nella vita aveva fatto tutte le scelte giuste per superare l’handicap di quel nome e di quel colore. Le scuole giuste, le università  giuste, le lauree con giusta «summa laude», la moglie giusta, le figlie giuste, le amicizie giuste, la città  giusta – Chicago – per lanciarsi in politica e ora si sente come quei campioni di basket, il suo sport adorato, che dopo avere infilato dozzine di canestri in fila non ne centrano più uno. Appunto «going cold», dice il gergo sportivo, gelato.
Gli sembra tutto troppo brutto per essere vero. A tratti, si ha quasi la sensazione che non abbia più tanta voglia di andare avanti, anche se sta mietendo finanziamenti elettorali più di tutti i suoi possibili avversari insieme. La fantastica conquista della Casa Bianca nel novembre del 2008 pare averlo appagato. Nei discorsi pubblici poco incisivi, rituali, suona irritato per la ottusità  di coloro che non vogliono capire quanto lui abbia ragione, quanto evidente sia la demenza di questi «Partigiani del Tè» che hanno preso in ostaggio l’America dalla destra estrema, al grido di «muoia Sansone». «Siamo e restiamo una nazione da tripla A, da AAA» ha detto subito dopo il «downgrading» il ribasso del voto al debito pubblico mai avvenuto nella storia, trascurando il fatto che la Standard & Poor non ha «downgraded» i Buoni del Tesoro in dollari. Ha «downgraded», declassato il governo politico degli Stati Uniti, dunque lui.
Per risalire, per creare l’impressione di non essere un uomo politico a una velocità  sola incapace di cambiare marcia, dovrebbe riprendere la pagine scritte da alcuni dei suoi predecessori di successo. Rileggere il libro della vita di Franklin Delano Roosevelt, che, racconta lo storico della Emory University, Drew Western, quando visitò gli abominevoli campi di concentramento per americani di origine giapponese durante la guerra interruppe la donna che gli faceva da guida perchè era scoppiato a piangere, lui, l’aristocratico di New York con il bocchino d’argento per la sigarette.
Dovrebbe rivedersi i video di Bill Clinton, quando il formidabile marpione sapientemente appannava la voce e mormorava ai concittadini meno fortunati «I feel your pain», sento il vostro dolore. Potrebbe finalmente, dopo una vita di cose giuste, fare le cose «sbagliate» e «uncool», scaldarsi, agitarsi, arrabbiarsi, alzare la voce, scagliare anatemi demagogici e populisti contro i profittatori e i ribassisti che stanno sparecchiando miliardi in Borsa giocando sulla pelle dei pensionati che hanno i propri risparmi in sciagurati fondi pensione.
Farebbe bene a ignorare i sondaggi che lo hanno castigato fino a una media nazionale poco sopra il 40% e comunque assai più alta dell’ultima disastrosa fase di George W Bush sceso al 30%, ma non ancora distrutto, e quindi ancora lo illudono, perchè in sedici Stati americani, da New York all’Illinois, dal Massachusetts al Connecticut, gode della approvazione di oltre il 50% degli elettori, secondo Gallup. Gli suggeriscono di richiamare d’imperio il Congresso in vacanza d’agosto a Washington mentre gli speculatori ridono e i risparmiatori piangono. Di non continuare a dare la sensazione di «guidare il gruppo dalla coda» e mettersi alla testa e di sbarazzarsi di quel ministro del Tesoro Geithner con fama di essere «troppo a letto» con i grandi finanzieri e i sussiegosi bancarottieri. Invece lo ha riconfermato fino alla fine del 2012, dunque del proprio mandato.
Svegliati, Barack, lo implorano i blog e gli attivisti che devono credere il lui, anche, e soprattutto perchè le alternative sono atroci, il «parterre» di potenziali avversari repubblicani variano da zombie della vecchia politica come l’ex governatore del Massachusetts già  trombato, il mormone Mitt Romney, alla fanatica «teiera» del Minnesota Michele Bachman, una che si vanta di avere un marito medico che «cura l’omosessualità ». Anche di fronte all’irritazione del proprio elettorato di colore, senza il quale non avrebbe speranze di rielezione, farebbe bene a ricordarsi di quella metà  genetica, afro, della quale non deve avere più paura. Si attendono, speranzosi, il «disgelo di Barak Obama».
Urge un «Obama versione 2.0», con un nuovo programma. La novità  storica, come il terrore razzista, della sua «negritude» si è ormai consumata. È venuto il tempo di essere l’affabulatore da pulpito, il grande «story teller», il narratore di leggende e miti, come era Reagan. L’America depressa e confusa non ha bisogno di un secchione, ma di un predicatore che la scaldi, di un padre che le rimbocchi le coperte ogni sera, con una bella favola tiepida.


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