by Sergio Segio | 8 Agosto 2011 7:08
NEW YORK. “Signor Presidente non mi dimetto, tengo duro”. Il segretario al Tesoro Usa ha sentito il bisogno di diffondere una nota ufficiale.
È UNA NOTA per smentire le sue dimissioni dopo il clamoroso downgrading degli Stati Uniti. «Sono pronto a continuare la mia missione di fronte alle sfide per l’economia del nostro paese», così Geithner scrive a Barack Obama. La prima sfida lo attende oggi alla riapertura di Wall Street. La Borsa americana e soprattutto il mercato dei titoli pubblici, devono esprimere un nuovo giudizio sulle “due crisi gemelle”. Da una parte c’è il declassamento inflitto da Standard&Poor’s al debito sovrano di Washington, con la minaccia di una sanzione ancora peggiore («33% di probabilità di un ulteriore downgrading»). Dall’altra c’è il rischio-default dell’Italia, provvisoriamente tamponato venerdì col “commissariamento” dell’Italia e la conferenza stampa Berlusconi-Tremonti. Tutt’e due i focolai di instabilità erano stati digeriti solo a metà , nella seduta di venerdì. Il downgrading americano era giunto a mercati chiusi, alle otto di sera di New York, anche se le voci lo davano per probabile già da qualche giorno. Oggi la reazione di Wall Street arriva dopo la certezza del verdetto S&P.
Questa reazione dei mercati deve incorporare tre elementi. Da una parte, la perdita della “tripla A” riduce la sicurezza dei titoli pubblici Usa che sono l’investimento universalmente più diffuso, presente nelle riserve delle banche centrali e nei portafogli delle banche commerciali, nei fondi comuni e nei fondi pensione. Un’incognita aggiuntiva riguarda le conseguenze del duro avvertimento cinese: mai Pechino aveva “alzato la voce” con toni così ultimativi intimando all’America di mettere ordine nella propria finanza pubblica. Ma se questi due fattori possono preludere a una “fuga” dai titoli pubblici Usa – con conseguenze catastrofiche per la stabilità mondiale – c’è un elemento che gioca in senso opposto. È la paura della recessione. Se davvero è probabile una “ricaduta” dell’economia americana, questo fa scendere i tassi d’interesse. Per una regola matematica, se calano i rendimenti sale il valore dei titoli pubblici. Il risultato: paradossalmente, più va male l’economia americana più i Treasury Bond emessi da Washington possono recuperare un ruolo di bene-rifugio (accanto all’oro, al franco svizzero). Ieri l’ex governatore della Federal Reserve Alan Greenspan ha riassunto così: il downgrading non è sinonimo di un rischio-insolvenza degli Stati Uniti; tuttavia quella bocciatura può diventare per i mercati il catalizzatore di tutte le cattive notizie che stanno addensandosi.
L’altro focolaio di crisi, l’Italia, aveva suscitato forte attenzione anche a Wall Street: perché a differenza dagli Stati Uniti i mercati considerano possibile un default italiano con effetti a catena su tutta l’eurozona. Venerdì la seduta di Wall Street era “girata” dal negativo al positivo proprio per le notizie in arrivo da Francoforte e Roma. Il miglioramento degli indici di Borsa aveva salutato la notizia del diktat della Bce con le tre condizioni imposte dall’estero (Berlino-Parigi-Washington) al governo Berlusconi: anticipo dei tagli al deficit, pareggio di bilancio nella Costituzione, liberalizzazioni. In cambio, la promessa di massicci acquisti di Btp italiani da parte della Bce. Dopo il sollievo iniziale di venerdì, e dopo le consultazioni avvenute ieri sera in seno al G7, oggi Wall Street avvia un esame più attento del caso-Italia. Le grandi banche e hedge fund americani cominceranno a chiedersi che cosa valga un emendamento alla Costituzione italiana, già largamente disapplicata. Guarderanno ai tempi di attuazione delle promesse. Il rischio per l’Italia è che si ripeta la sindrome greca. Un anno fa il governo di Atene promise alla Bce e al Fondo monetario fior di privatizzazioni; passavano i mesi e quelle dismissioni rimanevano sulla carta. All’inizio i mercati ci cascarono. Una volta disillusi, e convinti che i governanti greci erano inaffidabili, i mercati sono passati a uno scetticismo fatale: fino a costringere la Grecia di fatto a un default (pudicamente presentato come un “concordato” coi creditori sulla ristrutturazione del debito).
Le due crisi gemelle – downgrading degli Stati Uniti e rischio-default dell’Italia – sono diverse agli occhi dei mercati salvo un punto in comune: il problema della crescita. Dall’economia più grande del mondo fino agli anelli deboli dell’Eurozona, non c’è percorso di risanamento delle finanze pubbliche che sia sostenibile – e quindi credibile per i mercati – senza la crescita. Il rapporto debito/Pil risale inesorabilmente, se scende il Pil: anche questa è matematica. Lo ha capito Obama che già ieri sera è rientrato a Washington ben deciso a riproporre una manovra a sostegno della ripresa e dell’occupazione, cominciando con la creazione di una banca per gli investimenti in infrastrutture.
Le due crisi gemelle vedono in prima fila anche le due banche centrali più importanti del mondo. Oggi tocca alla Bce la prima prova del fuoco, con gli acquisti di bond italiani e spagnoli per tamponare la sfiducia dei mercati. Domani si riunisce la Federal Reserve americana e sul suo tavolo avrà il problema-recessione. I mercati attendono qualche segnale: il più clamoroso sarebbe un ritorno alle operazioni d’emergenza con cui la Fed pompò liquidità nell’economia americana acquistando titoli del Tesoro. Sarebbe la terza puntata. Non ha più molte munizioni neanche la Fed, avendo già i tassi d’interessi ufficiali inchiodati a quota zero. Nessuno si aspetta mosse azzardate da parte della Cina. I governanti di Pechino stanno prendendo le misure del loro nuovo ruolo di “banchieri globali d’ultima istanza”, il tono delle loro dichiarazioni lo dimostra. Quando invitano l’America a non vivere più di debiti, però, sanno di toccare un argomento delicato. Quell’America che viveva al di sopra dei suoi mezzi, era il mercato trainante per il made in China. Se Obama dovesse passare alla storia come il presidente dannato da due recessioni consecutive, qualcun altro dovrà assumere il ruolo di locomotiva della crescita globale. Cina, India, Brasile, tutti colossi afflitti da un’inflazione in rapido aumento, non sembrano né disposti né preparati a dare il cambio.
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