Donne, anzianità e contributi Le ipotesi per rafforzare la manovra
ROMA — Il governo era partito giurando: no, l’età pensionabile per le donne non si tocca. Poi con la prima manovra, quella dello scorso 6 luglio, c’è stato un primo ripensamento, con la decisione di aumentare gradualmente l’età per la pensione di vecchiaia delle donne da 60 a 65 anni, come per gli uomini (e per le donne del pubblico impiego, a seguito di una sentenza della Corte europea di giustizia). Si partiva nel 2020 con 60 anni e un mese e si finiva nel 2032 con 65 anni. Poi, con la manovra bis del 13 agosto, il percorso è stato accelerato. Si partirà nel 2016, sempre con 60 anni e un mese, per finire nel 2028. Adesso, tra le ipotesi che circolano, per correggere o rafforzare ulteriormente la manovra in sede di discussione parlamentare, c’è anche quella di una nuova accelerazione. Giuliano Cazzola (Pdl), vicepresidente della commissione Lavoro della Camera, propone per esempio di partire già nel 2012 e con aumenti di un anno ogni dodici mesi, in modo da arrivare a 65 anni nel 2016. «I risparmi di spesa sarebbero davvero notevoli», sottolinea Cazzola.
La relazione tecnica alla prima manovra stimava risparmi per 145 milioni nel 2021 «progressivamente crescenti» fino allo «0,4% del Prodotto interno lordo nel periodo 2031-2040», cioè la bellezza di 6,5 miliardi a valori attuali. La relazione tecnica alla manovra bis fa notare che a questi risparmi vanno aggiunti quelli che si realizzeranno per effetto dell’anticipo della misura: 112 milioni nel 2017, 320 milioni nel 2018, 565 milioni nel 2019, 1,2 miliardi nel 2020, 1,8 miliardi nel 2021. È chiaro che se si partisse nel 2012 questi risparmi si otterrebbero subito.
Ma non è questa l’unica ipotesi in circolazione. Ce ne sono altre che, in teoria, hanno maggiori chance di quella sulle donne, dove il no della Lega appare insormontabile. È il caso delle pensioni di anzianità . Adesso la possibilità di lasciare il lavoro in anticipo rispetto alla pensione di vecchiaia è regolata dal sistema delle «quote», fissato dalla riforma Damiano del 2007. Fino a tutto il 2012 vige quota 96, si può cioè andare in pensione di anzianità avendo 36 anni di contributi e 60 di età oppure 35 di contributi e 61 di età (per gli autonomi la quota è 97). Dal 2013 scatterà quota 97 per i lavoratori dipendenti (36+61 o 35+62) e 98 per gli autonomi. Come ha fatto notare di recente il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, la riforma Damiano fu fatta per ridurre il cosiddetto «scalone», cioè l’età di pensionamento improvvisamente aumentata dalla riforma Maroni del 2004. Un’operazione sbagliata e antistorica, secondo Sacconi. Ora, se per rimediare, si stabilisse un’accelerazione delle quote, per esempio, facendo scattare quella 97 già nel 2012, si potrebbero risparmiare all’inizio alcune centinaia di milioni e nel giro di qualche anno almeno un miliardo. Ma secondo Cazzola bisognerebbe fare ancora di più: «Arrivare in 5 anni a quota 100 e abolire la possibilità di lasciare il lavoro con 40 anni di contributi indipendentemente dall’età » (che poi, in realtà , diventano 41 con l’applicazione della cosiddetta finestra mobile). Probabilmente non si arriverà a tanto, ma l’anticipo di quota 97 non è da escludere.
Tutte le proposte viste finora (donne, anzianità ) prestano il fianco all’accusa di accanimento contro i lavoratori. Più difficile sarebbe criticare l’estensione del contributivo pro-quota a tutti, rilanciata ancora ieri sul Sole 24 Ore da Elsa Fornero, grande esperta di previdenza. Una misura di equità intergenerazionale che se fosse stata applicata fin dall’inizio, cioè dalla riforma Dini che introdusse il metodo di calcolo contributivo ma escludendo i lavoratori che nel ’95 avevano più di 18 anni di servizio, avrebbe risparmiato tante riforme successive distribuendo il carico dei sacrifici non solo sui giovani, come purtroppo è accaduto. Lo stesso Cazzola, anche lui molto esperto di pensioni, lo ammette, ma osserva: «Temo che i buoi siano ormai scappati», nel senso che chi aveva almeno 18 anni di contributi nel 1995 o è già andato in pensione o gli manca poco. Diverso sarebbe calcolare tutte le pensioni, anche quelle di chi aveva allora meno di 18 anni di versamenti (che ha il sistema misto), col contributivo, come avviene per chi ha cominciato a lavorare dopo il ’95, ma ci sarebbe una rivolta dei sindacati. E Berlusconi non vuole rompere con Cisl e Uil.
Infine, se perfino uno come Cazzola, sempre attento ai lavoratori autonomi, base elettorale del Pdl, dice che bisognerebbe aumentare i contributi che versano commercianti e autonomi (il 20% contro il 33% dei lavoratori dipendenti), «anche perché le loro gestioni Inps sono in profondo rosso», vuol dire proprio che l’ipotesi andrebbe considerata. Così come quella di un contributo di solidarietà sui pensionati baby: molti i lettori che hanno scritto al Corriere per sostenerla.
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