Dipendenti e autonomi: eterno derby d’Italia

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Chi abbia dato fuoco alle polveri non è facile dirlo. Forse il responsabile della eterna guerra delle tasse fra autonomi e dipendenti è Ezio Vanoni, il padre della riforma tributaria che introdusse la dichiarazione dei redditi: creatura che proprio quest’anno compie sessant’anni. Oppure Bruno Visentini, che nel 1973 inventò l’Irpef e il concetto di «sostituto d’imposta», in base al quale il datore di lavoro toglie le tasse direttamente dalla busta paga.
Di certo la guerra è divampata cruenta all’inizio degli anni Ottanta. Nel 1981 l’ex ministro delle Finanze Franco Reviglio, che aveva come giovane consigliere un promettente tributarista che rispondeva al nome di Giulio Tremonti, sbottò pubblicamente: “L’approvazione della legge per colpire l’evasione fiscale non è più procrastinabile”. La legge arrivò l’anno seguente, a ridosso di un condono tombale. “Manette agli evasori”, venne battezzata: ma di manette ai polsi dei contribuenti infedeli ne scattarono davvero poche. Della furia (parolaia) del nostro fisco fece le spese una lavoratrice autonoma di lusso: Sofia Loren, che finì in carcere nel 1982 per diciassette giorni, ritenuta colpevole di non aver pagato le tasse nel 1963. Vent’anni prima, a dimostrazione di quanto sia stato sempre tempestiva la macchina repressiva dell’amministrazione.
Rino Formica, ministro delle Finanze socialista che seguì a Reviglio e mise il suo nome in calce alla sanatoria del 1982, fece di tutto per non rendersi simpatico a commercianti e lavoratori autonomi. Un giorno del 1990 arrivarono nelle redazioni dei giornali alcuni libroni con la copertina verde. Erano gli elenchi delle dichiarazioni dei redditi degli italiani, con nomi e cognomi. La tempistica era perfetta: in pieno luglio le notizie erano scarse e quel regalino si trasformò in un’arma letale. Spulciando le liste il nostro bravo Dino Vaiano scrisse articoli strepitosi, raccontando di stabilimenti balneari per ricchi che incassavano come un bar di periferia e di fiorai ambulanti napoletani che avevano barche da 700 milioni di lire (di allora!).
I commercianti messi alla berlina schiumavano rabbia, ma ancora di più schiumavano rabbia, di fronte a certe cifre e a certi nomi, i lavoratori dipendenti e i sindacati. È ignoto se quell’operazione fosse funzionale o meno al condono fiscale del 1991, all’epoca probabilmente in gestazione. Sicuramente i conti pubblici erano in grave affanno: l’Italia aveva già  firmato gli accordi di Maastricht, che impegnavano i paesi aderenti a rispettare un rapporto fra deficit e Prodotto interno lordo del 3%, mentre da noi quel rapporto veleggiava tranquillo intorno al 10%. Non parliamo poi del debito pubblico, decollato a partire dal 1982, per il quale il fatidico 60%, limite massimo in rapporto al Pil imposto sempre dall’intesa sulla moneta unica, era un pallido ricordo. Di fatto la pubblicazione di quegli elenchi, diciotto anni prima di una analoga decisione presa nel 2008 dalle Finanze di Vincenzo Visco (scatenando un putiferio e la reazione dell’autorità  per la privacy) a elezioni politiche già  vinte da Silvio Berlusconi, si rivelò un pallonetto per il governo di Giuliano Amato, alle prese con una situazione disastrosa del bilancio statale. Così venne concepita la vituperata minimum tax. Con la parola “minimum” tratta dal dizionario latino, e non a caso. Perché una tassa simile era applicata anche nell’antica Roma, in epoca imperiale. I sindacati la sostenevano a spada tratta. La Confcommercio la giudicava invece un parto del demonio. «È l’estrema aberrazione del nostro sistema fiscale, che si fa sempre più stupidamente aggressivo», tuonò il presidente Francesco Colucci, minacciando una clamorosa serrata. Mentre il segretario della Cisl Sergio D’Antoni sventolava le cifre di formichiana memoria, secondo cui nel 1990 i lavoratori dipendenti avevano dichiarato al Fisco in media 22 milioni e mezzo, contro 19,9 milioni dei commercianti e 17,6 milioni degli artigiani.
La tensione fra autonomi e lavoratori dipendenti cresceva. E cresceva pure fra le forze politiche. A fianco degli autonomi «delle partite Iva» si schierò senza mezzi termini la Lega di Umberto Bossi. Prese posizione anche la Chiesa, attraverso il presidente della Conferenza episcopale. «Tutti accettino il giusto carico fiscale», disse il cardinale Camillo Ruini. E la sua frase venne interpretata come una critica alla manifestazione dei commercianti contro le tasse. Ma pure al Carroccio.
Non fu l’unica dimostrazione di piazza. Un’altra la organizzò qualche anno dopo il nuovo capo della Confcommercio Sergio Billè, cosciente di essersi ritrovato in mano un jolly elettorale non da poco. I suoi conti: 4 milioni di piccole imprese significavano 12 milioni di voti. E «non che io mi senta il loro rappresentante. Ma noi commercianti abbiamo posto il problema centrale della campagna elettorale: le tasse, il fisco». Era il 1996 e mentre ci si avviava alla vittoria annunciata di Romano Prodi, il segretario di Alleanza nazionale Gianfranco Fini se ne uscì con una proposta sensazionale: mettere tutto sullo stesso piano, abolendo il sostituto d’imposta. Anche i lavoratori dipendenti avrebbero avuto la paga lorda in busta paga, per pagare ciascuno le tasse con la dichiarazione dei redditi. Come in America. Ci risero tutti sopra.
Nel frattempo la minimum tax era morta e il governo Prodi aveva creato un nuovo strumento: gli studi di settore. Una roba complicatissima, tanto che si costituì una società  apposita, la Sose, affidata a un fiscalista di chiara fama, Giampietro Brunello. Fermi restando i dubbi circa il fatto che un’attività  tipica del ministero delle Finanze debba essere affidata a un soggetto esterno all’amministrazione, e guidato da un commercialista privato, gli studi di settore hanno cambiato poco o nulla lo scenario. Forse perché di fatto sono stati frutto di un compromesso sull’evasione “consentita” con i lavoratori autonomi. Insomma, una specie di “minimum tax”, ma molto più flessibile.
C’è da dire che in tutti questi anni anche gli autonomi hanno avuto le loro belle rogne. Per esempio, sono stati caricati di oneri burocratici micidiali, nonostante le promesse di semplificazioni e di sportelli unici. Basti pensare che per aprire una piccola attività  di ristorazione sono necessarie ancora più di 70 pratiche e che su oltre 8.100 Comuni ce ne sono soltanto 112, dice una ricerca della Confartigianato, in grado di svolgere tutte le pratiche online senza costringere l’imprenditore a recarsi allo sportello con un modulo. Per non parlare dei vari balzelli: forse non è un caso che nella classifica di Doing business l’Italia sia scivolata all’ottantesimo posto. Non solo. Gli autonomi hanno dovuto affrontare la crisi più tremenda dalla Grande depressione senza gli ammortizzatori sociali che hanno invece avuto i dipendenti.
Ma comunque, guardando le dichiarazioni dei redditi, oggi siamo più o meno allo stesso punto. Nel 1990, scrisse sul Corriere Dino Vaiano, un negoziante denunciava in media 15,4 milioni l’anno, contro 19,4 milioni di proprio commesso. Ed eravamo prima della minimum tax. Nel 2004, sei anni dopo gli studi di settore, un gioielliere dichiarava in media 16.604 euro l’anno, cifra inferiore in termini reali del 9,8% a quella (13.067 euro) denunciata dodici anni prima. E se nel 2008 il reddito medio di un dipendente (19.640 euro) era inferiore al reddito medio d’impresa (18.140 euro), dipendenti e pensionati producevano da soli l’80,3% dei redditi dichiarati al fisco.
Numeri implacabili, che dimostrano come nell’Italia dei condoni le battaglie della guerra fra dipendenti e autonomi siano sempre state vinte dai secondi: soprattutto negli anni del centrodestra, per cui hanno sempre rappresentato una appetitosa base elettorale, ma anche durante quelli del centrosinistra. E questo a dispetto di tutte le iniziative messe in campo dal Fisco. A dispetto delle promesse di più controlli, a dispetto dei redditometri e dei riccometri, a dispetto dell’obbligo di dichiarare auto e barche, perfino di tutti gli incroci resi ormai possibili dalle meraviglie dell’informatica. Sconfitti, i dipendenti, quando hanno preteso un giro di vite sull’evasione fiscale nella speranza di vedersi restituire le tasse recuperate. Sconfitti, anche durante l’ultimo governo Prodi, al quale chiedevano un taglietto delle imposte (le più care d’Europa sul lavoro): ma non c’è stato il tempo di incassarlo.
Sconfitti sempre. L’ultima vittoria degli autonomi è di poche ore fa, quando dalla manovra che tosa ancora una volta i ceti medi è scomparso il prelievo aggiuntivo sui redditi superiori ai 55 mila euro annui dei lavoratori autonomi. È bastato un colpo di bacchetta magica, ben assestato…


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